ANTONIO COZZOLINO
alias PILONE
A immediato ridosso della metropoli partenopea, nella zona vesuviana, all’indomani dell’invasione garibaldesca e poi sabauda, divampò furiosamente e dappertutto l’insorgenza popolare a difesa della patria duosiciliana che i vincitori hanno tacciato con il perfido termine di brigantaggio. Ciò contemporaneamente al tutto il resto dei territori al di qua e al di là del Faro, in coerenza e osservanza di una tradizione di sovranità delegata quando il re non era più in grado di salvaguardare gli interessi nazionali. Nonostante gli scritti prezzolati o sventati di una sfilza di meridionalisti il brigantaggio non era mai stato, e non fu nel periodo post unitario, una rivolta di classe, una ribellione importata o un’espressione del carattere criminale del popolazione del sud della penisola italica.
Alcuni capibriganti sono divenuti famosi come Crocco, Chiavone, il sergente Romano, Ninco Nanco; altri sono meno conosciuti per scelta conformistica dei ricercatori storici. Alle falde del Vesuvio avvennero le gesta di Antonio Cozzolino, originario di Torre Annunziata, che non fu da meno degli altri e dette filo da torcere per un decennio alle forze strapotenti di occupazione.
Era nato nel 1824 e visse con il padre scalpellino (in lingua napoletana spaccavasulo) della pietra vulcanica a Boscotrecase, capo circondario del distretto di Castellammare della provincia di Napoli. Seguì il mestiere del genitore partecipando alla costruzione della prima linea ferroviaria della penisola, poi, per la sua prestanza fisica si arruolò nel corpo scelto dei Cacciatori. Si distinse costantemente per efficienza e coraggio nelle varie operazioni civili e militari, tanto che nel maggio 1860 era in Sicilia con le truppe fidate che al comando del magg. Sforza furono inviate per fermare l’avanzata di Garibaldi.
Eccolo allora a Calatafimi il 15 maggio nella celebre battaglia 1 contro 4 (e con munizioni contate) che i Cacciatori di Sforza furono obbligati a combattere per il tradimento del gen. Landi. Il Cozzolino, promosso sergente, sprigionò allora tutto il suo lealismo e il suo ardimento quando strappò la bandiera dei Mille al figlio di Garibaldi Menotti, il che significava la massima onta del nemico che poi paradossalmente raccontò di aver vinto lo scontro. Ne ebbe una medaglia al Valor Militare. Il tricolore fu poi consegnato come preda di guerra a Sua Maestà Francesco II e custodito da allora dalla dinastia borbonica tra i trofei più cari ed importanti. Le peripezie scriteriate dell’avanzata dei garibaldini lo videro sempre in prima linea contro di essi. A settembre eccolo ancora alla Piana di Caiazzo, in Terra di Lavoro, all’assalto del caposaldo delle camice rosse sulla città in collina con lo spirito e il coraggio che l’aveva contraddistinto in Sicilia. Infatti anche nella zuffa caiatina riuscì a sottrarre il tricolore agli sconfitti garibaldini dimostrando tutto il suo odio verso la bandiera degli invasori e meritando un’ulteriore promozione a sergente maggiore. Naturalmente combatté il 1° ottobre al Volturno, avendo la sfortuna di essere fatto prigioniero ma anche la fortuna di essere imprigionato nel castello aragonese d’Ischia quando tanti altri suoi commilitoni furono avviati verso i campi di sterminio nel nord Italia.
Dopo un breve periodo fu liberato tornando nella sua Boscotrecase. I lamenti della patria in catene lo indussero ben presto a diventare brigante. Riunì i giovani dei dintorni formando una potente banda che si associò al grido di “Fuori lo straniero!” che echeggiava dal Tronto al Capo Lilibeo. La folta barba gli diede il soprannome di Pilone con cui divenne temutissimo e famoso in tutto il territorio vesuviano. Pilone aveva ricevuto un vero brevetto reale di “comandante delle truppe di terra della provincia di Napoli”, con allegata nomina a cavaliere, confermando quanto detto all’inizio sulla legittimazione e tradizione della difesa popolare della Patria delle Due Sicilie.
Immediatamente divenne un perseguitato dalla pubblica sicurezza in mano agli inaffidabili traditori della Guardia nazionale. A Boscoreale c’era un tenente dei nazionali, Giuseppe Giri, freneticamente sulle sue tracce. L’8 maggio il capobanda assalì la caserma eliminando lo sbirro. Da lì la sua fama popolare si accrebbe come la voglia del nemico di acciuffarlo quale pericolosissimo reazionario.
Anche se altre bande agivano in zona, dai rapporti dei soldati sabaudi e della Guardia Nazionale ogni azione bellica veniva attribuita alla “banda Pilone”. Spessissimo quest’ultima si univa ad altre formazioni insorgenti per creare più grossi problemi al nemico. Pilone collaborò specialmente con Vincenzo Barone e Cipriano La Gala. In effetti il brigantaggio a ridosso della derelitta ex capitale fu tutto riferito al suo nome. Qualche documento parla addirittura di un incontro di Cozzolino con il generale Borjes!
I giovani che allora sfuggivano alla subitanea e velleitaria leva indetta dai sabaudi, addirittura quando l’esercito duosiciliano ancora resisteva a Gaeta, venivano definiti soldati sbandati e continuamente ricercati e rastrellati per essere imprigionati in attesa della deportazione nei campi detti di rieducazione nel settentrione, ma veri e propri lager di pulizia etnica, come la famigerata Fenestrelle. Pertanto erano costoro gli obiettivi del brigantaggio per essere liberati e arruolati alla causa legittimista. A Boscotrecase il 9 luglio i pilonisti attaccarono il paese del loro comandante facendo evadere parecchi ragazzi dopo aver fatto fuori le guardie. Fu un tripudio popolare con Antonio portato letteralmente in trionfo al grido di «Viva il Re Francesco II, viva il Papa Pio IX, viva Pilone!». Tanto per evidenziare lo stretto nesso tra brigantaggio, lealismo e fede cattolica. L’amministrazione dell’intero circondario di Castellammare andò in panico ingigantendo numeri ed entità delle incursioni. Il questore di Napoli Nicola Amore, vero campione di fellonia verso la Patria e il Popolo, prese in mano la situazione con arresti e interrogatori estenuanti di tantissimi civili senza però approdare a nulla di concreto contro i briganti. Nei relativi verbali risultano prove degli assunti fondamentali sul brigantaggio come falliti attentati contro dei nobili per intervento diretto di Pilone che spiegava ai suoi sottoposti il lealismo di costoro. Tantissimi i processi negli archivi che accusano i civili di connivenza, somministrazione viveri, concessione di ospitalità, favoreggiamento e varia complicità con gli uomini dell’ex sergente torrese.
Nel 1862 la “banda Cozzolino-Pilone”, come recitano varie carte processuali, divenne un vero e grosso problema per i nuovi padroni e l’esercito, con i famigerati bersaglieri, fu sguinzagliato alle sue calcagna, mentre le laute taglie sull’ex scalpellino crescevano sempre di più.
Attacchi alle truppe occupanti in spostamento, assalti alle caserme dei vari paesi, liberazione di arrestati accusati di brigantaggio o connivenza, rapimento a fine di riscatto, punizione di traditori passati allo straniero si susseguirono per anni tra Scafati, le due Torri, Boscotrecase, Boscoreale, Pompei, Gragnano, Terzigno, Portici, Somma e tanti altre località attorno al Vesuvio che rappresentava un vicino, accogliente e sicuro luogo di rifugio all’arrivo delle preponderanti forze italiane. Da rimarcare che i soldi ricevuti o confiscati non arricchirono mai nessun capobanda perché venivano usati per le spese di armamento e di logistica in generale, al contrario dei veri delinquenti che talvolta riuscivano ad accumulare dei veri tesori.
Il 6 luglio in località Monticelli di Torre del Greco accadde una vera anche se limitata battaglia tra briganti e truppe regolari italiane. Pilone però si defilò dalla stretta ferrea dei soldati Savoia e si rifugiò sui monti Lattari da dove progettò nientemeno che l’assalto al capoluogo Castellammare. Assai significativo il fatto che i reparti di Guardia Nazionale chiamati a supportare l’esercito non si presentarono. Si tratta della VI compagnia di Torre del Greco che subirà un procedimento disciplinare con sospensione e disarmo.
Negli anni successivi Pilone continuò la sua guerra patriottica contro l’invasore, trovando sempre la solidarietà della popolazione e, sovente, anche quella di comandanti della Guardia Nazionale. Infatti bisogna precisare che questo reparto di pubblica sicurezza si era costituito per ordini ineludibili dei signorotti locali, collusi con il nemico, ai loro sottoposti. Lo sviluppo delle vicende favorevole ai conquistatori ne avevano ingrossato le fila ma non c’era nessuna libera scelta, e tanto meno convinzione, di servire la causa unitaria. Pertanto quando i fatti sembravano volgere a vantaggio degli insorgenti, c’erano tentennamenti e defezioni tra le Guardie a cominciare dai capi. Ecco perché la banda dell’ex scalpellino era praticamente imprendibile. Solo i reparti dell’esercito sabaudo, con i famigerati bersaglieri, formati da originari del centro-nord italiano potevano creare vere difficoltà ai briganti.
Ci vogliamo soffermare sul famoso rapimento del marchese Michele Avitabile. Costui apparteneva a quella maggioranza delle famiglie nobiliari insofferenti alla politica dei Borbone a favore del popolo. Già nelle Calabrie i suoi congiunti avevano aiutato finanziariamente l’avanzata dei cosiddetti Mille e lui si era immediatamente messo a disposizione del masnadiero nizzardo al suo arrivo a Napoli. Fu ripagato subito con la direzione del Banco di Napoli mentre veniva spolpato dagli sciacalli invasori. Avitabile era quindi la figura inquadrata dai briganti per essere castigato per la sua fellonia. Il 30 gennaio 1863 sorpreso mentre si recava a caccia presso Boscoreale il marchese si trovò al cospetto del capomassa, addobbato con i colori borbonici bianco e rosso e le insegne del comando ricevute dal governo in esilio a Roma. Fu costretto a firmare la richiesta di riscatto di 20 mila ducati che fu fatta recapitare alla moglie. A tarda sera arrivò una borsa piena di monete per il pronto rilascio del sequestrato che però non raggiungeva nemmeno la metà di quanto stabilito. Alle minacce dei briganti il marchese implorò in ginocchio di essere risparmiato e graziato, riuscendo alla fine a intenerire Pilone che lo liberò. Questo la dice lunga sulla presunta ferocia dei briganti che consentirono a traditori rinnegati come l’Avitabile di continuare a godere dei loro crimini contro il popolo. Addirittura da parlamentare il marchese potrà finalmente sfruttare i suoi sottomessi, con l’appoggio del nuovo re Savoia, addomesticato per servire i voleri settari.
A febbraio ostinatamente il questore Amore, anche per l’uccisione per mano del capobanda di un sottufficiale di bersaglieri, strinse la morsa per annientare Pilone. Molti sindaci furono rimossi e sostituiti con i più acerrimi nemici del passato regime. Dopo un combattimento serrato a Boscotrecase, il nostro eroe riuscì però ancora ad eclissarsi. Prima andò da amici a Resina e poi s’imbarcò per Terracina e quindi Roma per incontrare il Re. I gendarmi pontifici in breve lo arrestarono stimolati dalle pressioni internazionali e lo rinchiusero nelle carceri di Tivoli dove conobbe Carmine Donatelli alias Croco, il più conosciuto tra i capibriganti. Assai si romanzò sulla detenzione romana con frequenti notizie di evasioni o azioni criminali anche sui monti laziali. Altre notizie lo posero liberato e presso la Corte Borbonica in esilio. Fatto fu che nel 1864 vari dispacci avvisarono la presenza di Pilone di nuovo negli ex territori duosiciliani. Anche qui vari poco credibili documenti aggiungono alle apparizioni nel vesuviano anche quelle addirittura in Aspromonte o nei boschi dell’Incoronata in Capitanata.
Come già sperimentato nei momenti di massima crisi Pilone visitava la corte a Roma. Questo accadde nel 1866 dopo due combattimenti a Sarno e Boscotrecase che decimarono la banda e costrinsero il capo a imbarcarsi ancora per lo Stato Pontificio.
Dopo varie vicissitudini a motivo di estradizioni mancate, di tentativi di evasione (per cui si fratturò una gamba che lo costrinse a curarsi a Palazzo Farnese per poi zoppicare fino alla fine dei suoi giorni) e di segnalazioni di avvistamenti proco probabili come a Marsiglia, nel 1869 Pilone riuscì a tornare nella sua terra con l’immutato proposito di liberarla dallo straniero. Ma i tempi per il brigantaggio erano ormai durissimi. Man mano che la miseria aggrediva la popolazione dell’ex regno borbonico, si moltiplicavano repressione degli indomiti e arrendevolezza di quanti invece desideravano soltanto sopravvivere. Sulla sua testa pendeva una taglia appetitosissima che naturalmente faceva gola agli affamati ex sudditi borbonici. Per Pilone divenne praticamente impossibile riorganizzare una vera banda e dovette limitarsi ad agire da solo, soprattutto per sfuggire alla caccia che gli davano le forze del nuovo ordine. Per un eroe eccezionale come Antonio Cozzolino le difficoltà andavano aggirate per sprigionare sempre il massimo possibile di lotta armata per la Patria. Con pochi compari e grandissima fede la spina di Pilone pungeva sempre profondamente i nuovi padroni tra l’ammirazione mai scemata della popolazione. Come l’impavido insorgente del 1799, Gaetano Coletta alias Mammone, divenne spauracchio per i bimbi per la perenne e perfida propaganda neogiacobina, così si fece per Antonio Cozzolino minacciando i piccoli ingenui di stare buoni, altrimenti “veniva Pilone”!
Un suo vecchio amico di scorribande, Salvatore Giordano, fu il suo Giuda incassando la borsa dei trenta denari per accompagnarlo a Napoli il 14 ottobre 1870. Gli fece tendere una trappola dalla polizia presso l’Orto Botanico dove doveva incontrare persone per un’ altra estorsione verso i venduti al conquistatore sabaudo. Circondato dagli sbirri fu trucidato a tradimento tra gli sguardi terrorizzati dei passanti. Portava addosso un bigliettino con scritto una formula tra il magico e il religioso che il giornale Il Pungolo pubblicò: “Conno due di veco, e con dieci di leco e cuore di Gesù quello e tico posso fatù“. L’interpretazione fu chiara solo per la parte finale in cui si invocava Gesù per essere aiutato a quel 2 che vedeva e a quel 10 che legava… Senso sicuramente oscuro ma ultimo regalo di Antonio Cozzolino alias Pilone per i napolitani schiavizzati. In massa giocarono al bancolotto 2 e 10 e vinsero globalmente una vera fortuna…
Vincenzo Gulì