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Oggi i duosiciliani ricordano l’ultimo atto ufficiale del Regno delle Due Sicilie. La frase è tratta dal ‘Il Saccheggio del Sud’ di cui riportiamo uno stralcio che riguarda proprio il tramonto di quel 13 febbraio 1861. Il sole scende inesorabile oltre l’orizzonte e viene la notte cupa e terribile della malaunità italiana. Ma ogni tramonto ha la sua alba. Noi stiamo lavorando per questa…

 

“Comunque tra i responsabili della roccaforte Rituccci e Marulli e il comandante sabaudo Cialdini vi sono contatti vieppiù frequenti nella prima metà di febbraio. Per la sfacciataggine dei Sardi, che in ogni tregua riattano ed incrementano le opera fortificate accusando di tali nefandezze proprio gli innocentissimi assediati, le trattative proseguono sotto il perenne duello di artiglieria. Da parte degli invasori si spara puntando maggiormente sulla quantità dei colpi, favoriti dalla maggior gittata e precisione dei pezzi in dotazione, avendo un bersaglio facile e rifornimenti senza alcun limite; ovviamente non ci si preoccupa di evitare di colpire le case civili e i presidi sanitari debitamente segnalati con grave nocumento per tanti disgraziati. Da parte dei Borbonici si risponde con veemenza ed impegno crescenti per la lenta diminuzione della quantità dei colpi.

La sera del 13 deflagra con violenza  inaudita la batteria napoletana Transilvania quando la frequenza dei proiettili sardi ha toccato l’altezza inusitata di dieci al minuto! La barbarie sabauda viene ribadita col fuoco che gli assedianti anche stavolta concentrano sui soccorritori dei tanti colpiti dallo scoppio, sovente sepolti ancora vivi. L’analogia con l’esplosione della batteria S.Antonio sia per quanto riguarda la ferocia conclusiva tendente ad impedire l’aiuto dei feriti, sia per quel che concerne la conoscenza esatta della planimetria della fortezza, fa riflettere seriamente il Re. Egli si convince  che, affievolendosi per causa di forza  maggiore la potenza difensiva dei Napoletani, i mezzi a disposizione dei Piemontesi diventano sempre più letali e capaci di far saltare in aria tutti i punti pieni di polvere da sparo della fortezza l’uno dopo l’altro facendo strage degli eroici difensori. L’estrema decisione è presa. Un legno parte velocemente per Mola per firmare la resa presso lo Stato Maggiore sardo. Quel tramonto del 13 febbraio 1861 è anche il tramonto del Regno delle Due Sicilie quando un pezzo dalle torri di Gaeta spara l’ultimo colpo di un 16enne allievo della Nunziatella, prima che i plenipotenziari borbonici portino tra le mura l’accettazione sabauda. Da notare per ulteriore infamia per i Savoiardi che durante tutto il tempo necessario per stilare il capitolato le batterie straniere avevano infierito con la massima determinazione contro i bastioni che si erano praticamente arresi.

Agli assediati che si sono ampiamente coperti di gloria per tre mesi di durissima resistenza, il Re lascia un proclama. In esso si parla dell’inutilità di far ulteriormente spargere sangue di eroi che hanno largamente riscattato l’onore, compromesso dai tradimenti, dell’esercito napoletano. Ma cosa sperava il Re quando si era rinchiuso nella roccaforte? Forse di stancare il grande esercito che lo cingeva a tenaglia? Forse di essere soccorso dalle baionette austriache? Forse di veder risparmiato il suo regno dagli ultimi barbari calati dal nord? Come già detto, Francesco ben sapeva di non poter evitare il crollo del suo regno giunti a Gaeta. probabilmente assai prima avrebbe consegnato quasi dieci milioni di devoti sudditi allo straniero se i loro migliori rappresentanti in divisa  non gli avessero ripetutamente forzato la mano, forse influenzando in qualche attimo di disattenzione il suo pur esistente entusiasmo giovanile per la Patria. Per tale motivo era essenzialmente incominciata la resistenza a Gaeta ed era soprattutto proseguita quasi senza rendersi conto del naturale evolversi degli avvenimenti. Tra coloro che lo avevano tenacemente spinto all’eroismo è da sottolineare la splendida figura della Regina Maria Sofia che con mezzi ancora più completi avrà indotto Francesco a divenire, per un breve lasso di tempo, ribelle come lei alle ingiustizie del mondo. Si ripete che non si giustifica una sola goccia di sangue napoletano sparsa senza il fermo proposito di vincere. Quindi al prevalere della ragione il sovrano borbonico avrebbe dovuto schiantare metaforicamente i cuori dei suoi ultimi fedeli soldati con la resa, prima che le bombe vili del nemico li schiantassero materialmente! Parlare quindi il 13 febbraio di preoccupazione per la vita dei combattenti superstiti sa molto di retorica. Il proclama tratta poi di un epilogo che certamente sarà stato proposto dagli eroi di Gaeta: la morte piuttosto che la resa; infilzando colle baionette i primi Sardi a caccia di sopravvissuti tra le macerie totali della fortezza e soccombendo al numero schiacciante con dignità incommensurabile e con l’ammirazione eterna di tutto il mondo che avrebbe gettato vergogna imperitura sui Piemontesi sedicenti fratelli, suscitando magari anche il loro tardivo rimorso! Il Re giudica un vano olocausto quel tragico ma gloriosissimo epilogo e lo esclude non per la sua salvezza ma per quella dei suoi soldati. Finisce l’ultimo atto del Re delle Due Sicilie con l’assegnazione ai presenti di una medaglia per perenne ricordo delle gesta di Gaeta e con un vago “arrivederci” non sorretto da alcuna promessa, anche larvata, di volersi concretamente interessare di nuovo di loro. Un proclama vacuo ed inconcludente come l’intero comportamento ufficiale di Francesco II durante i dieci mesi della guerra con gli invasori prima rossi e poi blù Savoia.

Quando all’alba del 14 il Re, colla Regina, i conti di Trani e di Caserta ed alcuni generali, lascia la roccaforte per imbarcarsi con destinazione Roma, l’enorme costernazione tra gli uomini che, mentre echeggia l’inno nazionale di Paisiello, fanno ala al suo mesto passaggio, dimostra chiaramente come quell’epilogo super-glorioso fosse radicato in ogni probo soldato napoletano presente a Gaeta. I singhiozzi e le lacrime si sprecano, ma vanno oltre la commozione di vedere l’ultimo dei Borbone cedere ufficialmente il trono all’usurpatore suo parente, perchè, come lugubre presagio, atterriscono lo spirito degli stoici difensori di Gaeta i pensieri del futuro di schiavitù sotto la cupidigia dello straniero conquistatore. “