Man mano che avviene la riscoperta della nostra storia bandita per oltre un secolo dalla cultura statalista italiana, un’obiezione è portata costantemente riguardo alle popolazioni meridionali. Se esse erano superbamente inserite nello stato borbonico che competeva con chiunque e in tutti i campi con risultati encomiati a livello internazionale come mai oggi sono praticamente irriconoscibili e, comunque, troppo spesso diametralmente opposte a quelle del bel tempo che fu?
L’amore per la propria terra, per la propria lingua, per la propria storia, per la propria religione cattolica; lo spirito d’intrapresa che consentiva a tutti di realizzarsi, a livelli diversi ma sempre decorosi e sufficienti, entro il territorio di origine; il sentimento di nazionalità, sia di quella napolitana sia di quella siciliana, che stimolava ogni azione individuale e collettiva per il bene comune; l‘altissimo senso civico che imponeva serenamente a tutti il massimo rispetto per la cosa pubblica della capitale come del più minuscolo borgo; la fiducia totale nello stato che da tempo immemorabile era l’ago della bilancia della società facendo il forte con i prepotenti e il debole con i più sfortunati, permettendo a chiunque di avere una vita dignitosa, dall’alfabetizzazione generalizzata e a buon mercato al controllo della malavita in pratica al bando delle attività quotidiane sia pubbliche sia private.
Se analizziamo le precedenti doti dei nostri avi, non riusciremo a trovarne una sola ancora in essere a livello rilevante nella società attuale. Poiché i dati archivistici, a lungo tenuti riservati se non proibiti, confermano quanto lodato per gli abitanti delle Due Sicilie, occorre ricercare le colpe del degrado odierno.
Perché, dunque, i meridionali ignorano del tutto la loro storia, cambiano appena conveniente la loro lingua, dissestano perennemente la loro terra? Perché solo piccole imprese riescono a sopravvivere a Sud vanificando una cascata di denaro pubblico ufficialmente rivolta a sostenerle? Perché il tenore di vita e l’occupazione sono destinati a peggiorare sempre più rendendo praticamente impossibile lavorare nelle zone dei propri antenati creando una spirale di emigrazione senza fine? Perché il senso civico dei meridionali è talmente decaduto da essere portato ad esempio mondiale di comportamento incivile? Perché lo stato è visto come un padrone da allontanare eccetto il caso in cui è possibile sfruttarlo? Perché le istituzioni pubbliche sono tanto invise da rifiutare i suoi servizi notoriamente necessari come la scuola (più alto tasso di dispersione) o la giustizia (dilagare della cultura camorristica)?
I meridionali hanno modificato radicalmente i loro comportamenti negli ultimi 150 anni. Risalendo all’inizio ci troviamo di fronte il fatidico 1860, quando cominciò l’unificazione italiana mediante le guerre di conquista piemontesi. In pochi mesi gli abitanti al di sotto del Garigliano e del Tronto si trovarono appartenenti a un nuovo stato, quello sabaudo, di caratteristiche completamente diverse da quello borbonico. Poiché quest’ultimo rappresentava oltre sette secoli di civiltà pressoché omogenea in cui si era formata e consolidata la nazione duosiciliana, il trauma non poté che essere tremendo. Tutto sarebbe migliorato avendo il tempo per smaltire il colpo. Invece, alla prima mazzata (invasione senza dichiarazione di guerra, saccheggi, violenze, stermini) ne seguirono tante altre da creare un sistema teso ad annichilire tutto quanto si era sedimentato nei secoli. Cambiò così marcatamente lo stato e, conseguentemente, il senso dello stato. La politica sociale (quasi socialista ante litteram) dei Borbone fu annientata da quella liberal-elitaria dei Savoia che usarono la loro monarchia per aiutare i vertici della piramide sociale a vessare la base, creando classi privilegiate che si pascevano del disagio crescente delle proprie vittime. Così l’industrializzazione fu spostata a nord (mentre era stata sempre più sviluppata a sud) e l’agricoltura divenne sua vassalla (con rovina delle fertilissime terre meridionali); i servizi pubblici solo teoricamente spettavano a tutti perché le tristi ragioni di bilancio vedevano, di fatto, esaurire i fondi proprio mentre si dovevano distribuire nel Mezzogiorno (come per la scuola pubblica post-unitaria o le nuove infrastrutture da costruire); le entrate statali furono portate agli estremi colpendo con metodi sconosciuti (imposte indirette di ogni sorta, principio del solve et repete) anche quei meridionali benestanti che avevano tradito con la speranza di maggiori fortune…
Si costituì, in tal modo, un sistema vessatorio, discriminatorio, sperequativo contro i meridionali che non lasciò loro il fiato per respirare. Oltre dieci anni di guerra civile, chiamata ad arte brigantaggio, furono la logica risposta alla prepotenza dello stato sabaudo. Seguì un’emigrazione biblica, sollecitata caldamente dal potere, per decimare la popolazione e quindi (nel peggiore dei modi) i problemi sociali.
La scuola anche in questa occasione fu maestra (perfida) di vita perché ebbe il compito enorme di cancellare la memoria storica della gente del Sud, offrendo alle giovani generazioni un quadro volutamente distorto delle proprie origini e spronandole ad adeguarsi alle superiore civiltà del Nord. Solo quelli che vi riuscivano erano ben accetti in società specialmente dove si forgiavano le future leve del potere. Gli altri costretti all’arte di arrangiarsi, divenuta famosa per i meridionali, in tutte le sfumature dal furto della cosa pubblica (a causa dell’odio atavico verso il nuovo tipo di stato) alla delinquenza privata (combattuta entro limiti preordinati dal potere centrale).
Tale modo di governare italiano non ha subito sensibili modifiche verso il Sud sia sotto la monarchia sia nella repubblica.
Salvo rare eccezioni, risulta ovvio cosa siano diventati allora i meridionali di oggi. E’ la loro naturale trasformazione in risposta ai provvedimenti di uno stato italiano che non ha mai voluto curarli, magari per ignoranza dell’anamnesi della malattia sociale che li attanaglia.
La soluzione integrale è stata da qualcuno proposta con un ritorno al passato. Ma, realisticamente, gli scenari politici del terzo Millennio sembrano offrire possibilità più immediate e meno traumatiche. Se la via crucis dei meridionali si è svolta sotto un apparato statale centralizzato al massimo per azzerare le opposizioni territoriali e per drenare verso nord le cospicue risorse finanziarie presenti inizialmente giusto a sud, oggi il federalismo offre una ghiotta opportunità per cambiare finalmente rotta. In particolare i poteri crescenti delle regioni potranno dare la possibilità di intervenire in molti di quei settori prima citati per realizzare la svolta capace di invertire il trend negativo che da 150 perseguita il Mezzogiorno.
In quasi tutte le regioni meridionali si è votato pochi giorni fa con l’elezione di governatori quasi tutti nuovi che possono ricoprire il ruolo storico di pionieri del riscatto dei loro territori maltrattati dal potere statalista. Il riscatto si deve compiere, nel rispetto delle leggi e delle competenze, innanzitutto aprendo alla cultura locale mediante la giusta promozione della lingua , della storia e delle tradizioni tanto legate al Cattolicesimo con una politica a medio-lungo termine che avrà effetti sensazionali nel tempo. Poi è necessario, con conseguenze immediate e gratificanti, un serio piano di sviluppo delle aziende del territorio dopo aver studiato attentamente risorse, capacità e mercati il più che possibile ad esso collegati (con il turismo in primo piano) e una trasparenza assoluta dell’impiego dei fondi regionali tale da coinvolgere fortemente i cittadini che sono contemporaneamente utenti e sostenitori dell’attività amministrativa.
L’effetto trainante dei neoeletti sugli altri colleghi meridionali sarebbe decisivo per costituire quella macroregione meridionale più volte adombrata che non è altro che l’area del Regno delle Due Sicilie.
Chiediamo ai governatori il coraggio di inserire nei loro programmi, o realizzare veramente quello che già esiste, riguardo a quanto esposto sopra.
Se sulla pelle dei meridionali incominceranno a guarire le piaghe incancrenite dello stato centralista, insensibile alle esigenze periferiche, emergerà proporzionalmente la loro antica bravura e i problemi della famosa questione portata dall’unificazione saranno progressivamente risolti.
V.G.