I moti nel Cilento del 1848, Costabile Carducci e don Vincenzo Peluso

 

 

Quest’estate a Villammare di Vibonati presso Sapri per la prima volta sono stati esposti i fatti delle trite e ritrite ‘rivoluzioni cilentane’ smascherando i falsi eroi che la storiografia ufficiale e menzognera ostenta da 150 anni tra gli sprovveduti intellettuali locali. Personalmente ho tratteggiato un losco personaggio fin qui esaltato, Costabile Carducci,  giungendo a insperate e belle conclusioni. La famiglia di costui, chiaramente originaria della Toscana, era una delle tante emigrate tempo prima nel regno di Napoli per trovare rifugio e sostentamento. Il cattivo sangue non mente e il Carducci si lascia facilmente affascinare dalle sirene massoniche rivoluzionarie sin dal 1828, quando sogna che dal disordine nasca finalmente quel sistema di sfruttamento del prossimo che dal 1789 in poi tenta di governare il mondo, come purtroppo oggi è pienamente avvenuto.  La reazione borbonica fa abortire i moti del ’28 e l’ incauto buonismo regio lo perdona lasciandolo preziosa pedina nelle mani settarie perennemente in complotto.

L’avidità del personaggio lo rende inquieto e fertile alle promesse straniere. Il famoso anno della rivoluzione mondiale del 1848 lo trova modesto locandiere e inflessibile gestore di una scafa sul Sele con tanti debiti per l’inadeguato tenore di vita. Un altro sovversivo del ’28  improvvidamente graziato dai Borbone, Antonio Leipnecher, lo contatta incaricandolo di far scoppiare in zona tumulti il 18 di quell’anno fatidico. Naturalmente secondo il collaudato cliché massonico: soldi dall’estero, collegamenti con i notabili esosi locali, ingaggio di delinquenti comuni per far massa.  Per il 17 tutto è pronto e Carducci anticipa addirittura la data: ordina il taglio del telegrafo a Castellabate e interrompe il passaggio sul fiume; in tal modo la sua zona è isolata e tutelata dalla forza pubblica per diversi giorni.  Gli avvenimenti a Napoli, con la Costituzione concessa il 27 dello stesso mese e il l’apertura del perfido parlamento rivoluzionario, vanno tutti a suo favore e si ritrova vincitore senza combattere e addirittura colonnello della Guardia Nazionale pretesa dai ribelli.  Quando re Ferdinando II, dopo aver consultato il popolo per le vie della capitale, comanda finalmente la reazione del 15 maggio gli agitatori scappano da Napoli con la protezione palese dei mandanti anglo-francesi sulle navi in rada. Costabile sbarca tra Calabria Citra e Principato Citra e tante di resistere alle truppe regie ma a Campotenese i facinorosi sono battuti e dispersi. Con pochi seguaci non potendo più illudersi di abbattere il legittimo governo, i vari capetti rivoluzionari propendono per le vendette personali approfittando della situazione ancora nono totalmente normalizzata. Così anche il taverniere di sangue toscano si dirige verso Sapri con l’intento di ammazzare un suo antico antagonista locale il sacerdote don Vincenzo Peluso. fedelissimo a Sua Maestà sin dall’invasione del 1799 quand’era giovanissimo. Il prete era divenuto un devoto regio osservatore locale e controllava continuamente i faziosi del posto. Carducci vuole approfittare del momento per liberarsi definitivamente di lui tramite un criminale del luogo appositamente assoldato. Ma quando costui scopre l’identità della designata vittima, desiste essendo stato beneficato in passato proprio dal religioso.  Il Peluso viene allora a conoscenza dell’imminente arrivo di Carducci per spargere gli ultimi veleni rivoluzionari proprio nei pressi della sua abitazione ad Acquafredda vicino Maratea. Lì si apposta con dei leali sudditi e, nella penombra della sera, i due gruppi si intravedono. Carducci spera che siano i delinquenti locali buoni per continuare la sedizione dopo l’avvenuta uccisione di don Vincenzo e grida <<CHI VIVA?>>  Per averne conferma.  Ma non risuona né <<VIVA LA REPUBBLICA>> né <<VIVA L’ITALIA>>, come  sognava ma un forte <<VIVA RE FERDINANDO!>> che gli raggela il sangue nelle vene.  Scoppia la sparatoria in cui è immediatamente ferito al braccio proprio Costabile che ha un’emorragia capace di indurre alla resa i suoi compari.  Noncurante dei problemi personali il Peluso porta il colpito a casa sua bloccando la perdita ematica che lo stava facendo perire. Dopo, com’è naturale,  lo consegna ai gendarmi per tradurlo al carcere più vicino di Lagonegro. Qui s’impone la saggezza popolare  perché i custodi intuiscono il prevedibile prosieguo della vicenda, simile a quello di vent’anni prima, con Carducci ritenuto colpevole ma graziato per l’eccessiva indulgenza dei giudici gradita al Re. Fatto è che strada facendo decidono di giustiziarlo da soli, buttando poi il corpo in un dirupo. L’arma più letale dei neogiacobini, l’informazione, tuona tempestivamente in tutta Europa accusando le autorità borboniche del ‘crimine‘ con condanne solenni da Londra, ampiamente diffuse, e smentite ufficiali, dopo la legittima reazione di Napoli, artatamente ovattate. In tal modo i ‘professorelli‘ di allora e di oggi ancora considerano Costabile Carducci un eroe, martire della tirannide del Borbone. Era invece uno squallido traditore incallito che si sarebbe sicuramente salvato dalla pena capitale se fosse stato presentato davanti a un tribunale. Avrebbe proseguito a fare il sovversivo, marciando assieme a Garibaldi una dozzina di anni più avanti e macchiandosi del sangue del suo prossimo come tutti i suoi degni compari e come invitava a fare ad un ufficiale sottoposto in una lettera (agli atti del processo della Gran Corte Speciale del Principato Citra sui moti cilentani) scritta quando comandava la Guardia Nazionale di Salerno : <<L’esorto a non risparmiare il sangue, e far danaro se vuole vedere progredita la nostra causa.>>

L’agevole stroncatura del mito fasullo di Costabile Carducci è stata però l’occasione di approfondire un personaggio antitetico come don Vincenzo Peluso, sacerdote ma ‘Brigante di Sua Maestà’ come lo consideravano i francesi invasori del 1799  e seguenti. Un uomo leale,  generoso e forte perché dotato di un fisico possente. Compì la sua più importante impresa a favore della Patria nella terza età dopo aver servito superbamente tre re: Ferdinando IV, Francesco I e poi Ferdinando II. Per sua fortuna passò al Cielo qualche anno dopo , cioè prima che soffrisse nel vedere lo scempio ‘risorgimentale‘  della sua Patria delle Due Sicilie ma in tempo per ricevere direttamente dalla mani di Re Ferdinando un regalo per i meriti ampiamente acquisiti di fedeltà e abnegazione. Una piccola flotta militare si fermò presso Acquafredda e il sovrano gli fece visita donandogli un anello d’oro per eterna riconoscenza. In occasione del convegno abbiamo avuto la gioia di conoscere un discendente di don Vincenzo che ci ha mostrato con orgoglio l’anello gelosamente custodito per oltre un secolo e mezzo. La nostra patria risorge con le verità storiche che spingono quelli che stanno nell’ombra a palesare sentimenti ed oggetti che si credevano per sempre perduti …

Vincenzo Gulì