Una settimana dopo la farsa dell’unità italiana, con il Re già in esilio a Roma, un gruppo di eroi ancora resisteva nell’Abruzzo Ultra I, distretto di Teramo, nella fortezza del capocircondario di Civitella del Tronto. Noi oggi lo ricordiamo per onorare la loro memoria sottolineando che la maggior parte dei difensori saltò in aria nella cittadella, altri furono fucilati quali briganti ed altri finirono a Fenestrelle. Però non fu mai trovata l’ultima bandiera. Svanì semplicemente perché i soldati se l’erano spartita segretamente in irriconoscibili pezzetti per non consegnarla al nemico…
Da Il Saccheggio del Sud di V. Gulì riportiamo delle pagine su questo glorioso avvenimento, ultimo atto del regno duosiciliano.
Civitella del Tronto, all’estremo limite nord-orientale del Regno delle Due Sicilie, ha perso l’importanza strategica nel 1860 perchè altre strade immettono nel regno, debitamente battute dagli invasori che l’avevano tranquillamente ignorata sfiorandola nel loro passaggio alla metà di ottobre. La fama più che la potenza della fortezza aveva realizzato il concentramento nelle sue imponenti mura di parecchi gendarmi e di numerosi volontari civili accanto all’esiguo presidio regio comandato dal titubante magg.Ascione. Pochi reparti garibaldesi e un notevole quantitativo di Guardie Nazionali, provenienti dalla vicina Campli, sono sufficienti per impedire i rifornimenti agli asserragliati. Il morale di questi ultimi è tanto alto che all’onomastico del re Francesco con salve e feste si comunica sfrontatamente agli assedianti la propria fedeltà alla Patria. La baldanza dei difensori dell’antica fortezza giunge a temerarie sortite come quella realizzata dal cap.Giovine, tanto imbevuto di odio verso gli invasori da soppiantare di fatto il comando del magg.Ascione, troppo tiepido in tal senso, che punisce i traditori delle Guardie Nazionali colpendoli a sorpresa nelle loro case a Campli con loro vergognosa fuga generale e saccheggio dei loro beni. Anche all’arrivo dei Piemontesi guidati dal gen.Pinelli il coraggio dei Napoletani non scema e le avanguardie sarde sono messe in precipitosa fuga sempre sotto l’esempio del cap.Giovine. Da notare che durante le sortite gruppi di civili intervenivano sempre a dar man forte.
L’assedio di Civitella, pur fatto con notevole impiego di forze , non riesce a strozzare gli assediati che con ammirevole frequenza portano le loro azioni a sorpresa infliggendo danni soprattutto morali al nemico. Così mentre i Piemontesi bivaccano da atei nella chiesa di S.Maria, i Borbonici li assaltano costringendoli a rientrare ignominiosamente nel grosso.
Nella rocca più che le armi abbastanza antiquate danno sicurezza ai difensori le opere di fortificazione che offrono all’assediante uno spettacolo inquietante e maestoso. La disciplina rafforzata nella fortezza per opera del sottufficiale del gendarmi Messinelli, comandante della polizia, fa emergere una solidarietà inattesa tra gli assediati che vanifica, insieme alle mura ciclopiche, i colpi di cannone dei Sardi. L’ardimento dei Napoletani è riprovato dal messo Filippo Enea che con encomiabile semplicità è capace di uscire dalla fortezza, raggiungere il re a Gaeta e tornare con gli incoraggiamenti reali e con la promozione a colonnello del baldo ufficiale Giovine che diviene a tutti gli effetti il comandante del presidio. Il gen.Pinelli non riesce a cavare il ragno dal buco; bravo solo a partorire proclami infarciti di astio e di parole volgari per gli assediati. Da Torino gli si prospetta una nuova strategia, perfettamente in linea con la sporca politica dei Sabaudi. Infatti per fiaccare la forza di Giovine si pensa di scendere al livello dei ricatti che sovente la malavita organizzata usa come strumento estremo contro i suoi persecutori più incisivi ed incorruttibili: la famiglia del colonnello a Napoli viene pesantemente minacciata e tenuta in ostaggio sino a quando il suo eroico congiunto infastidirà i Sardi. Giovine rimane frastornato, per l’amore per i parenti e per la bassezza dei soldati savoiardi, ma le sue decisioni sono anticipate dalle trattative di resa che alcuni prezzolati della rocca intavolano su opportuno suggerimento esterno. Ma la maggioranza dei difensori ha il morale assai alto come la fede nella propria Patria; Giovine e i fautori della resa sono emarginati e il 16 febbraio il magg.Ascione riprende il suo comando. Pur salvando i suoi familiari, Giovine non trova rispetto negli spietati Sardi che lo arrestano per il sacco di Campli e lo trasferiscono a Torino.
Pur con la vistosità della perdita di un difensore come Giovine, i Napoletani sono fermamente convinti di resistere ad oltranza e fanno sempre più risaltare l’inettitudine del gen.Pinelli ad espugnare la rocca. Un nuovo generale vien mandato a sostituirlo per eliminare la vergogna per gli invasori dell’eroica difesa di Civitella, Mezzacapo, traditore napoletano del ’48. Ormai schierati contro i 400 impavidi Borbonici vi sono ben 4mila piemontesi e, dopo un bombardamento a tappeto che non provoca nessun caduto tra gli assediati, presuntuosamente i Sardi vanno all’assalto delle mura ma sono respinti sanguinosamente. Ma siamo purtroppo a marzo ed il Re è già in esilio a Roma. Per evitare ulteriori vani lutti un suo inviato, il gen.Della Rocca, raggiunge Civitella e viene subito messo in contatto coi difensori da Mezzacapo che intravede la sua vittoria (disonorevole). La fiera resistenza degli assediati li ha talmente esaltati che il messo del sovrano è issato sui bastioni per non aprire le porte pericolosamente avanti alle orde nemiche. Logicamente l’ardore napoletano è più forte delle parole di Della Rocca che convincono il comandante Ascione ma non gli altri responsabili della truppa. Si distingue Messinelli che arriva a raccontare ai soldati bugie su Gaeta invitta e su una inesistente promozione per spronarli ancora a resistere. Avviene naturalmente una spaccatura tra i difensori, con Ascione che segretamente ha un abboccamento con Mezzacapo promettendogli di aprire le porte della rocca che la codardia sabauda non era stata capace di sfondare! Comunque il timore personale che l’imbelle Ascione nutre per Messinelli, che ha sostituito Giovine nel cuore dei patrioti, lo istiga a non affrontarlo direttamente ma attendere una delle sue frequenti sortite nell’abitato circostante per chiuderlo fuori della fortezza. E’ l’alba del 20 marzo quando il poliziotto viene escluso dalla rocca e immediatamente si issa la bandiera della resa. Contemporaneamente si apre la porta verso Napoli e i Piemontesi incominciano ad entrare ove il loro valore militare non li avrebbe mai immessi! Secondo il malcostume sabaudo alla stampa vien consegnata la favola di quattro giorni di eroici assalti culminati nell’apertura volontaria delle porte dei difensori incapaci di resistere oltre! In effetti l’unica parvenza di verità consiste nella porta spalancata dai fidati del comandante senza consultare la maggioranza dei difensori e dopo il tranello teso a Messinelli.
In tale guisa il 20 marzo 1861 è ammainata l’ultima bandiera borbonica nel Regno delle Due Sicilie in un suo lembo estremo i cui regnicoli non avevano mai fatto breccia nel cuore del Re per convincerlo che avanti a tutti gli interessi vi sono quelli del popolo fedele, invece sistematicamente ignorato ed abbandonato.
Mezzacapo fa mettere ai ferri subitaneamente i più accesi tra gli assediati: con in testa Messinelli si distinguono anche il sottufficiale Santomartino, il civile Zopito e il reverendo padre Zilli.
La vendetta del nemico, per ben sei mesi beffeggiato dai difensori, esplode ogni oltre limite civile. Il prode Messinelli, perfettamente a conoscenza degli intrallazzi tra Ascione e Mezzacapo per la ridicola resa, viene barbaramente fucilato per primo! Segue poi il turno di Zopito, definito frettolosamente brigante. Si arriva pure vergognosamente al martirio del frate Zilli, ostinatamente dichiaratosi ostile agli invasori. Santomartino viene graziato ricevendo però una lunga condanna a 24 anni di reclusione nel nord, a Savona; per la superficialità dei controlli dato lo strepitoso spiegamento di forze necessarie nel futuro prossimo per reprimere l’insurrezione popolare che vedremo, il valoroso napoletano cercherà di fuggire venendo ferocemente trucidato.
La rabbia nemica tocca il vertice dell’ignominia, della barbarie e dell’odio verso il Meridione nell’eseguire l’ordine di distruzione della fortezza: sgombra dei suoi impavidi difensori essa viene minata e sottoposta ad un bombardamento cieco sino a lasciarla una massa fumante di rovine!
L’accanimento incivile dei Piemontesi contro i difensori di Civitella del Tronto e contro la stessa fortezza rappresenta un vile modo di coprire col sangue e colle macerie il fermo anelito di libertà dei Napoletani tanto palesemente vibrato nell’ultimo fazzoletto di terra meridionale scevra di invasione. L’inespugnabilità della fortezza davanti a due tracotanti generali sardi, e le operazioni micidiali in seguito alle intrepide sortite degli assediati, avevano inflitto intollerabili perdite agli assedianti nettamente superiori a quelle avversarie. Ma soprattutto il clamore per le gesta di Civitella, suscitato dappertutto, aveva reso insopportabile al rozzo invasore l’insieme formato sia dai soldati avversari che dalle mura gloriose. Ecco come spiegare l’abietto comportamento sabaudo che rimane intatto nella storia in tutta la sua infima bassezza.