La provincia di Terra di Lavoro era una delle più sviluppate e importanti del Regno delle Due Sicilie. Situata nella parte settentrionale  della nazione, aveva  capitale Caserta  e comprendeva cinque distretti: Caserta, Nola, Gaeta, Sora e Piedimonte. Essa godeva appieno degli effetti del buon governo dei Borbone con il re che abitava gran parte dell’anno nella splendida reggia, primato mondiale di maestosità e di prestigio.

Per comprendere le ragioni del successo della dinastia borbonica è d’uopo tracciare un breve confronto  con le altre case reali alla metà dell’Ottocento.  Dalla rivoluzione francese si erano distinti due tipi antitetici di sovrani : quelli accettati o generati  e quelli  travolti o invisi dai riformatori. Infatti, lo spirito repubblicano della prima fase rivoluzionaria era sfociato nell’impero napoleonico che disseminava l’Europa intera di re ad esso legati. Non fu, quindi, una lotta alla monarchia ma ad un certo tipo di monarchia. Senza perdersi in vane ciance tra quella assoluta e quella costituzionale (mai un parlamento in quell’epoca valse più del sovrano perché erano concordi per origine) tutto diventa più chiaro meditando sui due attributi che afferivano al re: per grazia di Dio e per volontà della nazione. Il primo era stato la caratteristica del Sacro Romano Impero ove il Papa era il punto di riferimento spirituale e giuridico delle nazioni europee. In tal modo si garantiva un rispetto non solo formale dei canoni cattolici con interventi diretti o indiretti del Vicario di Cristo nei casi controversi e delicati. Esempio concreto è padre François de la Chaiseil, confessore del grande Luigi XIV, il Re Sole,  che costringe l’uomo più potente della terra ad abbandonare la propria relazione peccaminosa con Madame de Montespan, mediante la minaccia di deferirlo al Papa. Naturalmente la debolezza umana non è in grado di garantire un sovrano santo ma il pungolo costante che parte da Roma costituisce una fonte di opportunità governative, congiunte più o meno intensamente al Vangelo, foriere di risultati in certi casi sorprendenti anche per i meno clericali. L’esempio eclatante, che  riguarda da vicino questo lavoro, sono i Borbone di Napoli che sopravvivono alla rivoluzione nel loro sistema di regnare “per grazia di Dio” e conseguono la posizione economico-sociale di rilievo nel consesso delle nazioni di cui si dirà oltre. L’aggiunta di “per volontà della nazione” è la scaltra trovata dei riformatori che brandiscono una sorta di specchietto delle allodole (la consultazione popolare) in maniera demagogica con un solo scopo: ridurre drasticamente la dipendenza del governo dal riferimento papale. Luigi XVI è decollato non perché  colpevole dei presunti mali di Francia, bensì per il suo diniego reiterato di rompere con la Chiesa Cattolica. In altre parole, per tingere di modernità i tempi era necessario allontanarsi da Roma, cioè dagli insegnamenti evangelici interpretati dalla Chiesa. La storiografia sta ormai dimostrando inequivocabilmente che la rivoluzione, come il risorgimento, è stata un attacco alla Chiesa che si è concluso dichiaratamente  solo il 20 settembre 1870 con la fine del potere temporale dei Papi. Era soltanto un problema religioso a muovere i rivoluzionari? No, era essenzialmente un problema economico. Il capitalismo che stava diventando adulto in Inghilterra mirava allo sfruttamento dell’ambiente, dei lavoratori, delle nazioni inermi. Con l’arma micidiale della propaganda, la rivoluzione ammanta quelle mire con le calunnie e le menzogne divulgate a scapito di coloro che le osteggiavano o semplicemente riuscivano a farle concorrenza. E’ il caso dei Borbone delle Due Sicilie che subiscono ancora la damnatio memoriae a causa di una caterva di bugie. Ciò perché erano riusciti, all’apice della loro politica cioè a metà Ottocento,  a competere tanto seriamente con la super potenza britannica da minacciarne addirittura il futuro.

Tra i Borbone, da Carlo VII di Napoli (detto erroneamente III perché questo ordinale si riferisce al trono di Spagna) a Ferdinando IV (poi I delle Due Sicilie), a Francesco I, a Ferdinando II e a Francesco II, c’è una perfetta continuità nell’interpretare il ruolo di monarca non rivoluzionario. Alcune caratteristiche specifiche: il re è il vertice dell’aristocrazia e della piramide sociale ma svolge marcatamente la sua funzione di equilibrio tra i ceti, frenando le insane ambizioni di quelli potenti a beneficio delle classi meno fortunate; il re è l’incarnazione della lealtà perché ossequioso del Vangelo e quindi rispettoso dei giusti diritti interni e internazionali; il re promuove la sana amministrazione puntando al pareggio del bilancio statale senza vessare di tasse i sudditi trovando forme alternative di entrate; il re fa attivare i governi centrali e periferici per sviluppare province ricche e meno ricche, centri popolosi e paesini sperduti in tutto il territorio al di qua e al di là del Faro. Quali sono invece le peculiarità del monarca gradito ai  rivoluzionari, come i Savoia: il re favorisce i nobili e gli altri potenti (come i borghesi spregiudicati) nella loro vessazione dei più deboli; il re persegue gli intenti loschi senza alcuna remora (come nell’invasione delle Due Sicilie senza dichiarazione di guerra) calpestando ogni tutela giuridica e umanitaria (lo Stato è “libero” dalla Chiesa); il re non argina la speculazione amministrativa con debiti pubblici enormi e pressione fiscale insostenibile (che spinge all’emigrazione); il re assiste inerte all’abbandono di intere aree non gradite agli investitori con esodo verso l’interno e l’estero di intere popolazioni.

La coalizione internazionale contro Napoli chiamata unificazione italiana eliminò i Borbone perché rappresentavano un modo di governare che poneva al primo posto dei suoi valori l’etica (cattolica), al secondo la politica e al terzo l’economia; il modo delle dinastie filo-rivoluzionarie aveva stravolto quei valori privilegiando l’economia cui andavano sacrificate la politica e persino l’etica.  Se sul mercato internazionale  le risultanze fossero state distanti (in termini di mole di commercio, di innovazione tecnologica, di scelta imprenditoriale negli investimenti) il capitalismo d’oltre Manica non avrebbe temuto alcunché. Ma non era così perché le bandiere borboniche garrivano in tutti i maggiori  mercati anche transoceanici.

diffusione sportelli bancari; piano regolatore città di Napoli (con individuazione centro direzionale); industria dei guanti (pelle di cuoio) con oltre 500mila dozzine esportate(M); industria della seta (da S. Leucio e da tutto il regno) per qualità(M);  maggior numero amnistiati e minor numero di giustiziati politici; saline (soprattutto pugliesi e siciliane)(M); occupati nelle industrie:Nord-Ovest, 30,05%; Nord-Est, 14,78%; centro, 14,12%; Due Sicilie, 41,04%; minor numero di emigranti (pressoché zero); maggior diffusione scuole pubbliche e/o   ecclesiastiche( in tutti i comuni).

Con queste preminenze, in continuo accrescimento quantitativo e qualitativo, l’apparato produttivo borbonico era in grado di competere con tutte le altre nazioni del mondo trasportando i suoi eccellenti prodotti ovunque grazie alla sua potentissima flotta mercantile. La competitività nella qualità e nel prezzo era consentita dallo straordinario rendimento del fattore lavoro, essendo l’addetto posto nelle migliori condizioni per dare il massimo con un orario di servizio e condizioni ambientali che non avevano eguali da nessuna parte (si pensi alle otto ore lavorative degli operari di Pietrarsa e Mongiana rispetto alle 12 e passa di quelli di Manchester e Liverpool). Per questi motivi il sistema economico anglo-sassone, che già stava creando gravi problemi sociali nel cosiddetto proletariato (era l’epoca del manifesto di Marx e Engels) correva il rischio della diffusione delle caratteristiche di quello borbonico tanto più favorevole alle maestranze da scatenare una contestazione difficilmente arginabile. Ecco la “crociata” internazionale contro Napoli che utilizza il piccolo Piemonte come strumento diretto e l’unità italiana come pretesto sotto la regia inglese e francese, cioè delle grandi potenze dell’epoca. Esse orientano facilmente i mass media sui falsi scopi dichiarati per farli divulgare ovunque; esse  concedono aiuti d’ogni sorta (dai soldi alle armi) al regno sabaudo, rappresentato inizialmente dalla romantica spedizione di Garibaldi che di romantico aveva ben poco. Infatti, la composizione dei “Mille” solo per alcune centinaia era fatta di volontari d’ogni provenienza e lingua (da tempo assoldati alla rivoluzione mondiale), per il resto (e si parla man mano di decine di migliaia) era costituita da veri e propri soldati degli stati sardi (che ormai comprendevano corpi di altre regioni dell’alta Italia) che avevano il duplice fine di sostenere Garibaldi e controllarlo per le sue sbandierate idee mazziniane. I Borbone pagano gli errori di lungimiranza del decennio francese e del ’48 e si ritrovano generali collusi con questa forza internazionale, messi al posto giusto nel momento della prova per aiutare l’invasore. Essi non furono tanto dei traditori di circostanza quanto dei collaborazionisti di vecchia data. Così può plausibilmente spiegarsi il crollo del regno più bello d’Europa che aveva la popolazione più felice del mondo (come commentato da tanti visitatori stranieri, Goethe in testa).

 

Questa innovativa analisi, fatta nell’ambito scientifico del CNR e comprovata da un’altra della Banca d’Italia (pubblicata nel Quaderno n.4 del 2010),  dissolve definitivamente la famigerata questione meridionale che governi interessati e meridionalisti di comodo hanno da sempre affibbiato al Mezzogiorno d’Italia. I territori dell’ex regno borbonico per lo meno non erano secondi a nessuno in Italia nel 1861. Da notare che tra il 1860 e il 1861 la terribile guerra civile (sommata ai primi e non lievi provvedimenti contro il Sud) ha inquinato sicuramente in peggio i dati di partenza.

Quale sia stato il destino della Terra di Lavoro nel violento e illecito cambiamento di regime è sia nella logica sia nella memoria di tutti. Essa passa dalla dinastia dei Borbone a quella dei Savoia come dal giorno alla notte. La rovina dei mercati per i prodotti della Bassa Italia è conseguenza di oltre un decennio di guerra  civile per il tentativo disperato dei meridionali di non divenire schiavi per sempre, dopo oltre cinque generazioni vissute a dir poco decentemente con il regime borbonico, e che deve subire il marchio infamante di “brigantaggio”. E’ conseguenza ancora dell’esosa politica fiscale dei nuovi padroni che usano tariffe  maggiorate per il Sud (che paga addirittura la tassa di guerra per essere stato conquistato!) al fine di drenare quanti più capitali possibili da far risalire verso il nord pieno di problemi economici (come il pauroso debito pubblico piemontese) al momento dell’unificazione. E’ conseguenza pure delle commesse pubbliche che scelgono esclusivamente imprese al di là del Garigliano quando la crisi è più dura. E’ conseguenza infine di provvedimenti legislativi estremamente iniqui che colpiscono indiscriminatamente le unità produttive meridionali anche più importanti e celebri come le ferriere di Mongiana (chiuse per farne altre a Terni) o come i setifici di S. Leucio (costantemente ostacolati per favorire il polo lombardo della seta). La guerra commerciale con la Francia dà il colpo mortale all’agricoltura meridionale e spinge, per la prima volta nella storia, milioni di disperati ad abbandonare le proprie terre per cercare fortuna nei luoghi più lontani e sconosciuti. Da briganti ad emigranti i meridionali vedono dimezzato il loro numero. E’ una vera diaspora. La laboriosità degli abitanti dell’ex provincia con capitale Caserta cozza contro la mala fede dei governi prima di Torino, poi di Firenze e infine di Roma che sfasciano consapevolmente il loro tessuto produttivo: addio alle industrie tessili della Valle del Liri, a quelle di S. Leucio e Piedimonte, alle derrate alimentarie della Campania Felix, alle cartiere della valle del Fibreno, alle cave di Mondragone e così via in una spirale di abbandono e di povertà istigata grazie anche alla presenza sempre più ingombrante e decisiva della camorra, sapientemente organizzata dall’aver partecipato in prima persona agli imbrogli di Cavour, Garibaldi e V. Emanuele.

Alla scuola l’ingrato ma fondamentale compito di cancellare la memoria storica del passato  borbonico da infangare con un sistema di menzogne e disinformazione unico al mondo perché regge impudentemente da 150 anni per l’autorevolezza dei suoi tutori, assisi nelle massime sfere.

Nel 1860 proprio in Terra di Lavoro si combatté quella battaglia del Volturno ritenuto l’evento decisivo per la sconfitta dei Borbone. Ma non fu un fatto politico, tanto meno un passaggio da un re a un altro; fu un fatto epocale perché designò il trionfo di un sistema di sviluppo socio-economico che i Borbone avevano osteggiato con i fatti per il benessere delle popolazioni. Il nuovo modello, specchio più o meno fedele nei confronti di quello anglo-sassone che sarebbe poi esploso alla grande negli USA, ha prodotto il mondo di oggi i cui mali più sofferti (come inquinamento, disoccupazione, colonialismo, emigrazione, supertassazione, instabilità politica, corruzione, malavita, sfruttamento del lavoro) non riuscirono mai a radicarsi in quel regno che andava da Gaeta a capo Lilibeo, dal Tronto ad Otranto e che era unito come nazione sin dai tempi remoti di Ruggero il Normanno.

Il futuro della Terra di Lavoro, come di tutto il Mezzogiorno, non sta, ovviamente, in un ritorno al passato ma non può da esso prescindere. Innanzitutto perché non lo conosce e poi perché non si possono ripercorrere gli itinerari zeppi di luoghi comuni e falsità (ignoranza, scarso senso civico, criminalità, assistenzialismo) che i vari governi centrali dal 1861 ad oggi hanno vanamente utilizzato per risanare i grossi problemi socio-economici presenti. E’ giunto finalmente il tempo per porre in rilievo i valori positivi e immanenti del periodo borbonico (senza nessuna anacronistica nostalgia dinastica) per trovare una fonte inesauribile di opportunità che costituiscono l’unica speranza delle venture generazioni meridionali.

 

V.G.