Nella scuola pre-rinascimentale le varie discipline umanistiche erano insegnate fornendo agli allievi una gamma di interpretazioni secondo le maggiori correnti di pensiero e lasciando a loro stessi la possibilità di orientarsi  in virtù delle proprie predisposizioni.  D’altronde, la famosa maieutica di Socrate aveva disposto l’azione soltanto catalizzatrice del maestro perché era il discepolo a interrogarsi per risolvere da sé  i problemi del sapere. Che cosa abbia decretato la scuola da Rousseau in poi è l’esperienza che ognuno di noi ha dovuto fare tra i banchi della sua carriera scolastica. Restringendo il discorso alla storia, la lezione ex cathedra non lascia praticamente alcuna libertà all’intelligenza degli studenti . Gli enciclopedisti, per la prima volta, si applicarono a descrivere schematicamente ogni ramo dello scibile e quindi anche per la storia prepararono il quadro dei buoni e dei cattivi, del progresso e dell’arretratezza, dei miti da passare per veri e delle verità da presentare per fiabesche. E i discenti furono costretti a fidarsi dei docenti, com’era sempre avvenuto nel passato purtroppo con basi tanto differenti…  Risultato: la formazione di classi di alfabetizzati secondo i voleri del potere che si andava consolidando che, proprio nel delicatissimo campo storico, non lasciava alcuna possibilità di scampo alle sue arbitrarie e tautologiche definizioni di personaggi e movimenti del passato per trionfare nel presente e predisporre un avvenire ancora più conveniente.

Senza questo preambolo non può affrontarsi il tema più atteso dell’anno che viene, il 2011, che per l’Italia sarà quello del 150° della sua unificazione politica. Interessati o meno, pressoché tutti  saremo raggiunti dai messaggi risorgimentali. Essi concerneranno personaggi e avvenimenti che hanno avuto un peso determinante per noi del Mezzogiorno e che, secondo quanto asserito sopra, sono stati stampati nei libri delle elementari come in quelli delle università in stretto  ossequio a quella didattica riformata. In tal guisa, le menzogne che perseguitano il Sud da un secolo e mezzo saranno riproposte con più risonanza  in questo momento cruciale che accoppia la crisi economico-finanziaria mondiale con il completamento del federalismo interno.    In altri termini, proprio mentre i meridionali avrebbero necessità di punti positivi di riferimento per pianificare un futuro meno burrascoso si dà loro il colpo decisivo iterando i mille luoghi comuni che li marchiano, riducendo ancor più la forza di reazione. Senza andare troppo nei dettagli, da un sistema statuale regolato da un apparato giuridico improntato a principi alloctoni, segnatamente distanti da quelli tradizionali di gran parte della popolazione italiana, non si poteva attendere altro.  La separazione sempre più evidente e incolmabile tra amministratori e amministrati prosegue sfrenatamente. I primi si lamentano dello scarso senso civico e addirittura legalitario dei secondi che, a loro volta, li accusano di badare a tutto fuorché ai reali bisogni dei cittadini. Questa perniciosa dualità è più che evidente tra istituzioni e meridionali; essa è tanto radicata che forse nessuna delle parti  crede sinceramente che le cose possano cambiare, anzi si comporta sempre più proprio come se fossero immutabili, acuendo quella distanza  che è ormai un abisso.

Il problema è che quei popoli che da 750 anni vivevano al di sotto del Tronto e del Garigliano, da Ruggero il Normanno a Francesco di Borbone,  si sono trovati in quel fatidico 1861 non soltanto sotto un’altra monarchia ma nel bel mezzo di un cambiamento epocale che portarono i Savoia, strumenti inflessibili di quel mondo riformato che intendeva imporre a tutti costituzioni e governi omologati alle voglie del potere internazionale economico che avrebbe conquistato il mondo. Sul trono di Napoli si avvicendarono, nei tempi più recenti, sovrani Spagnoli ,  Austriaci  e poi Borbonici senza che accadesse un vero sconvolgimento nel tessuto sociale a causa del rispetto dei nuovi governi verso la  stragrande maggioranza  delle consuetudini locali. All’avvento dei sovrani sabaudi vi fu un ribaltamento tanto evidente in tutti i rami della vita sociale, sintetizzabile nella famosa “piemontesizzazione” , che i duosiciliani, divenuti meridionali,  prima tentarono sino allo stremo delle forze di opporsi (il “brigantaggio”) poi emigrarono in massa;  i rimanenti si persuasero che lo stato era per la prima volta un corpo estraneo ed ostile, da sopportare come un’interminabile bufera.

Tanti fatti potrebbero esporsi per suffragare il precedente ma la recentissima analisi (2007) dei ricercatori Vittorio Daniele (Università Magna Grecia di Catanzaro) e Paolo Malanima (istituto ISSM-CNR di Napoli) per la prima volta ha studiato i dati economici comparati delle varie regioni italiane dal 1861 al 2004 dimostrando l’inesistenza della famigerata questione meridionale che dall’unità italiana in poi ha martellato le nostre orecchie.  Lo studio è reperibile anche sul web alla pagina www.paolomalanima.it/default_file/…/Daniele_%20Malanima.pdf

ed è riassumibile nella seguente tabella che dimostra come il Sud non partisse affatto dietro al momento dell’unificazione. Ci sarebbe da aggiungere che già i dati del 1861 sono perturbati dalla violenta lotta civile del brigantaggio che abbassò certamente la produttività del Mezzogiorno…

Come concludere? Di sicuro non dando torto ai nostri avi che furono chiamati “briganti” per difendere una nazione e uno stato in cui si sentivano pienamente gratificati e realizzati sia se fossero contadini o pastori, sia se appartenessero alla borghesia o all’aristocrazia non smodata. Ciò non fu più possibile dopo il 1861 (come indica il grafico) in maniera crescente. Senza voler accusare troppo il potere ottusamente centralizzato del nuovo regno d’Italia, probabilmente i meridionali rimasero totalmente  inebetiti dal brusco cambiamento da non  più trovare  la strada per riaversi. Da Napoli, splendida capitale di metà Ottocento, si  incominciava a irradiare un messaggio al mondo intero che verteva su come creare uno stato a misura dei suoi cittadini e non esattamente il contrario che propugna quel mondo riformato.  Ciò poteva diventare assai pericoloso per le mire del potere economico che si stava espandendo perché l’esempio del regno delle Due Sicilie poteva essere un punto di confronto per lei problematiche  economico-sociali che affliggevano, ad esempio, le classi operaie dell’Europa centrale. Con Napoli in piedi, poteva nascere nel XX secolo un mondo diverso, indubbiamente migliore viste le difficoltà del presente sotto gli occhi di ognuno di noi. Forse questo è l’auspicio nemmeno troppo ottimistico per il mondo di domani. Non sarà ovviamente necessario riportare un Borbone sul trono perché qualsiasi tipo di stato può andar bene a patto che si governi il popolo per come è, facendolo crescere nell’ educazione autenticamente libera come quella accennata all’inizio; mai più le futili parole di D’Azeglio: fatta l’Italia bisogna fare gli Italiani. L’Italia ha solo 150 anni, gli Italiani (come i Duosiciliani del tempo che fu) hanno qualche secolo in più e possono dare più che ricevere cultura e civiltà…

 

 

 

 

V.G.