Nel 1861 la conquista piemontese della penisola italiana, contrabbandata per Unità d’Italia, si realizzò secondo i piani dettagliati e irremovibili concertati con la connivenza delle grandi potenze dell’epoca.

Nel campo economico l’obiettivo immediato era il risanamento del pauroso deficit nel bilancio di Torino, quello mediato  lo sviluppo ai danni e a spese della ricchezza degli stati inglobati. Naturalmente ciò non fu stato realizzato nel breve termine, cioè con la mera razzia delle finanze degli stati distrutti, ma si sviluppò con un progetto a lungo termine volto al massimo drenaggio delle risorse locali.  Questa serie di operazioni si sono delineate in maniera rilevante  verso il Regno delle Due Sicilie perché, come ormai riconosciuto unanimemente,  era lo stato di gran lunga più florido al momento dell’unificazione.

Dopo l’asportazione dei famosi 443 milioni di lire nei banchi meridionali, che rappresentavano i ¾ di tutta la ricchezza italiana, c’era bisogno di una politica economica specifica per un duplice scopo :smantellare l’apparato produttivo all’avanguardia esistente al di sotto del Garigliano (permettendoilprogresso a nord) e rastrellare la ricchezza degli ex duosiciliani (per impinguare le casse pubbliche private dei nuovi padroni).

L’accentramento amministrativo era lo strumento giuridico per convogliare agevolmente il denaro nelle mani del potere che aveva finanziato le guerre dette d’indipendenza. Fiumi di lire affluivano da ogni dove (specialmente per una serie infinita di balzelli) ma in maniera certamente disuguale. Pagavano più le zone con maggior potere d’acquisto(il Sud). Lo stato poi distribuiva “equamente” le risorse privilegiando ovviamente le zone con minore potere d’acquisto(il Centro-Nord). Caso emblematico fu la scuola dei primi decenni postunitari. La scuola pubblica fu finanziata dal bilancio statale, cioè con la maggioranza di tributi provenienti dal Mezzogiorno, ma non riuscì a coprire tutto il territorio nazionale. I fondi non furono sufficienti e l‘elargizione dimenticò proprio le regioni meridionali. Da lì venne la nomea di analfabeti appiccicata ai meridionali a causa di una generazione impossibilitata a frequentare le scuole che prima erano sempre state alla loro portata finanziaria e fisica.

Il governo passò dalla destra storica alla sinistra, poi ci fu il fascismo e la repubblica ma la tendenza delle politica economica italiana non cambiò mai sostanzialmente. Dopo 150 anni di applicazione tenace la situazione della nazione italiana è naturalmente ben diversa da quella iniziale. Gli effetti sono stati devastanti togliendo al Mezzogiorno praticamente l’agricoltura, l’industria, la mano d’opera anche intellettuale, i risparmi che, nonostante tutto, si riuscivano egualmente a concretizzare con enormi sacrifici. Lo stato centrale si è trovato nella situazione di convogliare gli euro da ogni dove e sempre in maniera disuguale.  Pagano più le zone con maggior potere d’acquisto(il Centro-Nord). La solita distribuzione privilegia ovviamente le zone con minore potere d’acquisto(il Sud). Da qui sono scaturite le lamentele della Lega Nord a cui non andava più bene l’accentramento amministrativo. Devolution, decentramento e federalismo sono istituti creati e discesi dal settentrione per rompere quella vecchia centralità. Se si consente alle macroregioni di utilizzare la ricchezza prodotta in loco per i servizi pubblici si realizza il sogno degli esosi discendenti dei conquistatori dell’Ottocento: lo stato non deve più prendere da chi ha per aiutare chi non ha. Semplicemente perché oggi chi ha sono i settentrionali e chi non ha sono i meridionali. Giusto l’opposto del periodo postunitario.

Questa è la triste realtà che il Sud sta aspettando nella completa confusione concettuale, facendosi illudere da parole magiche come autonomia o solidarietà. La nostra incertezze sarà tanto più letale quanto più saranno ferme e realizzabili le certezze del potere che predomina in Italia.

 

V.G.