I contatti certamente intercorsi  tra Garibaldi e Landi, come dettagliatamente si vedrà in seguito, portano nel nizzardo la convinzione che, come dopo quattro giorni non ha incontrato alcun militare difensore della monarchia e come è sbarcato indisturbato tra le navi da guerra locali, sarà parimenti una farsa l’attesa delle truppe borboniche a Calatafimi, via obbligata per Palermo. Quello che ha già visto infonde un senso di sicurezza al filibustiere: i “fratelli napoletani” sono stufi della tirannide dei Borbone e, guidati opportunamente dai duci avvicinati e (per quelli incontrati o di imminente incontro) “ammansiti”, tutto si risolverà in una marcia più o meno trionfale ed incruenta almeno in Sicilia.

I Napoletani si attestano, anche se non nella migliore posizione, proprio di fronte alla strada che viene da Salemi. I frementi e motivati soldati di Gaeta strappano a Landi il permesso di andare in avanscoperta “ma solo per avvistare il nemico”. Quando Garibaldi scorge questa piccola frazione dei Nazionali che ammonta a circa cinquecento uomini e che avanza con compostezza e determinazione, viene assalito da qualche dubbio e si ritira repentinamente sulle colline circostanti a meditare. Dopo tante assicurazioni avute, che vogliono quei Borbonici che vengono contro di lui tanto risolutamente?

Il comandante Sforza avverte il disorientamento dei rossi e, con un senso di democrazia su cui bisognerebbe tanto riflettere per l’armonia riscontrabile tra i Regi, parla francamente ai suoi uomini dicendo di non avere ordini di attaccare ma di sentirsi profondamente avvilito nel non potere inseguire gli invasori che scappano come capre sul pendio roccioso, quando questo è lo scopo per cui si sono mossi da Gaeta su invito del Re. Il coro dei soldati che ad alta voce incitano all’attacco, fa decidere rapidamente il da farsi. Il fuoco è micidiale e fa perdere continuamente le posizioni dei “Mille” che arretrano sempre più. Da notare che i garibaldesi sono circa sei volte superiori di numero. Il martellamento dura fino a che l’avanguardia ha munizioni a sufficienza. Sia per l’inferiorità numerica che per i colpi contati, i Nazionali, un vero pugno di eroi, non sono in grado di debellare il nemico completamente. Su di esso influisce, oltre alla veemenza dell’assalto, la sorpresa di veder combattere quei Napoletani, considerati inetti e mansueti, come se …. stessero difendendo seriamente la loro Patria dall’invasore! Inoltre il primo sangue che scorre tra gli avventurieri, li fa entrare in una realtà ben differente da quella sognata e goduta nei giorni addietro. Garibaldi resta così trasecolato, che fissa inebetito la battaglia; Bixio lo affianca furibondo (per le promesse ricevute che svaniscono all’improvviso?) e confabula con lui dando versioni diverse ai diversi interpreti che hanno scritto in proposito. Paura del nemico e decisa risposta di Garibaldi che al posto della vittoria c’è solo la morte; eccessiva premura del braccio destro del masnadiero che vuole spingerlo a ripararsi dalla fucileria facendo scudo col proprio cavallo; o, come sembra più verosimile per le caratteristiche dei personaggi che si chiariranno sempre più nettamente, piuttosto (come adombrato prima) per chiedere spiegazioni sulla vera essenza dell’impresa che, se si fosse dovuta compiere in modo normale (cioè  senza la strada spianata in tutti i dettagli dalla potenza, finanziaria e non, della setta internazionale) sarebbe stata un autentico calvario per loro ad imitazione del Pisacane. Mentre tali ragionamenti, insieme al valore degli assalitori, inchiodano i “Mille” sulle rocce di Calatafimi, vanamente Sforza manda delle staffette da Landi per chiedere rinforzi o, quanto meno, rifornimenti per proseguire l’attacco da soli. Il traditore Francesco Landi non solo nega gli aiuti ma accusa Sforza di insubordinazione e fa suonare inopinatamente la ritirata. Quando sarebbe bastato il solo apparire sulle creste dei colli di altri Nazionali per far fuggire disperatamente e definitivamente gli invasori, già in grandi ambasce e difficoltà, e salvare la Patria, quelle trombe recano a Garibaldi la prova che quanto promesso e pattuito è regolarmente rispettato. L’avanguardia rimane sbalordita e, senza più munizioni, incomincia la forzata ritirata. Ciò imbaldanzisce vieppiù i garibaldesi che si lanciano su di loro alla baionetta, coperti dalla precisa fucileria, con armi modernissime ricevute a Talamone come le carabine rigate, dei Carabinieri genovesi, nè più nè meno che truppe scelte di Vittorio Emanuele II.

Eppure gli eroici napoletani resistono con immenso ardimento, strappando la principale bandiera ai garibaldesi (vero cimelio regalato al nizzardo dagli Italiani del Cile durante le sue oscure imprese sudamericane) e facendo pagare a caro prezzo la conquista di ogni terrazza in cui è divisa la collina che separa i contendenti. Gli uomini che sono con Landi, a pochi minuti a piedi dallo scontro, capiscono che quei valorosi stanno subendo una punizione assolutamente immeritata per colpa dell’assurdo ordine di ripiegare e alcune centinaia, nauseati dall’infamia palese del generale, con una corsa forsennata cercano di sollevare le sorti dei connazionali abbandonati. Garibaldi è preso nuovamente dai dubbi vedendoli apparire. Si sarà chiesto: che combina Landi, invia i rinforzi per vincere? Ad ogni buon conto sta per sopraggiungere la sera e senza lambiccarsi ulteriormente il cervello decide un  cauto e comodo indietreggiamento favorito dall’oscurità incombente.

Sul campo restano numerosissimi morti e feriti gravi: quelli stranieri caduti nell’illusione di trovarsi lì per fare poco più di una passeggiata, quelli nazionali caduti coll’atroce dubbio di essere stati traditi. Non basta lo strazio dei corpi e dei loro ultimi pensieri: dalle celebrate bande dei picciotti calabro-siculi escono degli sciacalli (dimostrando la natura abietta dell’estrazione del loro gruppo) che martoriano e depredano i giacenti. Persino Garibaldi è inorridito e fa sparare per allontanarli.

La battaglia di Calatafimi è stata, come da copione concordato, uno scontro programmato, una sorta di tragi-commedia e, come tutte le rappresentazioni teatrali, non è mancante degli spettatori: gli abitanti del circondario hanno assistito da lontano, prorompendo sovente in boati per gli spontanei commenti per quanto accadeva di entusiasmante. Probabilmente anch’essi si saranno poste delle domande sull’autenticità del combattimento, rimanendo indubbiamente sconcertati perché il sanguinoso spettacolo osservato era stato contemporaneamente una finzione e una realtà. Questo accavallarsi di preventivato e di spontaneo, di tradimento e di eroismo, di sconfitta e di vittoria, sarà la caratteristica ricorrente dell’invasione del Regno dimostrando sempre più e meglio che solo la voluta disorganizzazione dell’esercito e del popolo tutto porterà al crollo finale.

Nella notte tra il 15 e il 16 maggio Landi tiene consiglio dentro la città di Calatafimi al fine di trovare consensi per il suo nefando comportamento. Il suo dispaccio sulla battaglia, già redatto prima della riunione degli ufficiali, parla di preponderanza numerica del nemico, di codardia dei suoi soldati e della mancanza assoluta di rifornimenti soprattutto alimentari. Menzogne colossali! Per quanto concerne l’ultima, quella dei viveri, c’è anche la deposizione in tal senso del sindaco presente. ma gli ufficiali leali (come il già lodato Sforza ma anche Pini, Afflitto, Cosinon) insorgono rumorosamente ottenendo la ritrattazione del rappresentante della città che si dichiara alla fine capace di rifornire illimitatamente le truppe regie. Ciò non riesce a scalfire la faccia eburnea di Landi. Costui, mettendosi contro tutti, ordina la ritirata generale su Palermo alla massima velocità, attraversando quindi celermente anche Alcamo che, per l’ottima posizione naturale, poteva diventare un baluardo imprendibile per il nemico costretto a passarci sotto. Le famigerate bande dei picciotti, stupite e divertite per la precipitosa fuga, indipendente dalle operazioni del nemico, si limitano a tallonare il ripiegamento disordinato per la fretta estrema imposta arbitrariamente dal turpe comandante in capo, disturbando qua e là i malcapitati soldati. La lunga e faticosissima marcia, soprattutto per l’alta velocità tenuta, si conclude nell’antica capitale normanna con estrema vergogna generale, anche se attribuibile ad uno solo, e impressionando fortemente le ingenti soldatesche acquartierate che, non conoscendo la verità,  vanno colla fantasia ad una disastrosa rotta provocata dall’invincibile “eroe dei due mondi”. Questa apparenza, tanto bugiarda, balenata nelle menti dell’esercito a Palermo, viene riportata, col solito risalto, dalla stampa mondiale che esalta il genio di Garibaldi e la viltà dei Borbonici! Ma Landi, si ripete unico responsabile, non fu soltanto un vile, perché  senza nulla rischiare, e rimanendo comodamente seduto nella sua carrozza al riparo anche dal rumore della battaglia, poteva inviare rifornimenti con pochi rinforzi annientando i prostrati invasori e addossandosi tutti i meriti successivi. Il tradimento prezzolato fu invece a farlo agire con tanta infamia:  l’anno dopo è documentato che il vecchio tenta di cambiare una polizza di 14000 ducati al Banco. Il rifiuto dell’istituto è motivato con l’avvenuta falsificazione della cifra, aggiungendovi truffaldinamente tre zeri non risultanti ovviamente sui registri bancari. Landi, nella concitazione esasperata, confessa di aver avuto il titolo da Garibaldi e per il dolore e l’ignominia, o soltanto per uno strano caso, dopo poco tempo muore di crepacuore!

 

Il Sanfedista