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Nel frastagliato mondo filo-borbonico s’incontra di tutto: dai legittimisti pronti a spianare i loro mantelli al suolo per far passare il Re ai meridionalisti che avvertono una confusa sensazione di una strada mai tentata per il riscatto del Sud; dagli studiosi che sono affascinati dalla miniera inesauribile di documenti sulla nostra storia misconosciuta ai nuovi briganti sempre più consapevoli di che cosa veramente teme il colonizzatore. Inoltre sussiste una vasta schiera di anti-borbonici, confusi nei presupposti ma lucidi nel loro amore per il Sud e nel proposito di riabilitarlo. Dagli uni e dagli altri spuntano quotidianamente sentenze e proclami, fomentati quasi sempre da buona volontà, che tuttavia trovano enormi difficoltà di condivisione  a causa della diversità di base. Vorremmo intervenire su un’importante questione riguardante la denominazione degli attuali italiani della bassa Italia. Un punto storico, obiettivamente fermo, è che essi discendono dagli abitanti del Regno delle Due Sicilie. Come si appellavano costoro in quel tempo felice? Dai documenti dell’epoca si deduce che Siciliani erano i sudditi del regno fondato a Palermo da Ruggero d’Altavilla che si estendeva fino al Tronto e al Garigliano, quindi comprendendo anche i continentali. Con il trasferimento angioino della capitale a Napoli e le tante vicissitudini politiche si comincia a scrivere di due Sicilie e poi delle peculiarità della maggioranza della sua popolazione al di là del faro identificata come Napolitani. Difficilmente però questa definizione è stata esportata al di qua del faro, pur non mancando i tentativi, per  la tenacia degli isolani a serbare la propria individualità e priorità. Ciò è perfettamente comprovato dal riconoscimento borbonico di due distinti regni sotto un unico sovrano, appunto Ferdinando I di Borbone, re delle Due Sicilie (infatti Ferdinando era IV a Napoli e III a Palermo). Siciliani quindi nella parte insulare del regno e Napolitani in quella continentale. O anche Siciliani nel territorio citrafaro (di Messina) e Napolitani nel territorio ultrafaro, ovviamente avendo come prevalente punto di riferimento la capitale Napoli. Ciò storicamente nel XIII sec. per la separazione dei regni di Sicilia sotto gli Aragonesi e di quello di Napoli sotto gli Angioini, stante la primazia dell’isola, con Palermo capitale Regnum Siciliae citra Pharum,  e quindi del “suo” Faro. La proclamazione con Ferdinando I del nuovo stato delle Due Sicilie, con unione dei due regni precedenti, rappresenta il tentativo giuridico ma non etnico e culturale di superare quelle diversità. L’amministrazione separata rimarrà infatti inalterata nel rispetto dei popoli al di qua e al di là del faro compresi in un solo stato ma costituenti due distinte nazioni. Nazione siciliana e  nazione napolitana ma non duosiciliana, con un neologismo mai allora adoperato. Senza addentrarci nella differente storia plurimillenaria delle due nazioni, bisogna rilevare similitudini come nella religione o nella matrice greca, ma anche peculiarità come nella lingua o nelle tradizioni. Ciò non preclude l’armonia raggiunta sotto la dinastia borbonica quando le diversità si andavano progressivamente livellando a beneficio di un’unità sempre più intensamente sentita, come dimostra la partecipazione alla difesa del regno di tanti siciliani partiti spontaneamente per Gaeta e il brigantaggio speculare esercitato anche nell’isola quale sfortunata guerra di liberazione. Oltre sette secoli di unione monarchica avevano ridotto al minimo le differenze tra le due nazionalità, ma esse sussistevano ancora sensibilmente. Non è superfluo precisare che qui si parla continuamente di regni perché ci si riferisce a periodi storici ben delimitati nel tempo e nelle persone. Nessun pregiudizio pertanto nei confronti del mondo attuale, naturalmente diverso ed in cui bisogna riverberare le cose buone di allora nella sostanza sicuramente ma non necessariamente nelle forme. Chi, non avvertendo la diversità macroscopica tra le varie dinastie del passato, ancora può turbarsi all’aggettivo borbonico (dolosamente caricato di ogni male) non ha quindi alcunché di cui preoccuparsi.

Torniamo ai Napolitani. Gli abitanti di Napoli sono in lingua italiana Napolitani, come attestano altre lingue (francese: napolitaine; inglese: neapolitan; tedesco: neapolitanischen; spagnolo: napolitano; latino: neapolitanus) che utilizzano la “i” come di dovere. In lingua napolitana naturalmente si dice napolitano, in sicilano napulitanu.

Forse dalla forma napolitana della città, Napule, è sorta anche un altro aggettivo napuletano o napoletano. Questa forma si trova in alcuni scritti d’epoca preunitaria ma è nettamente soverchiata da napolitano. Oggi le persone di Napoli sono dette napoletane con la “e” al posto della “i” a livello ufficiale ed è del tutto scomparso il termine riguardante gli altri abitanti degli antichi territori ultrafaro, associati prima a napolitano. Dopo oltre 150 anni di colonizzazione italiana, i Napoletani sono i risiedenti a Napoli mentre gli altri meridionali prendono nome dalle rispettive città e province. E’ stata così realizzata una vera e propria scissione tra gli ex sudditi delle Due Sicilie, strappandoli profondamente dalla loro matrice storica della Napolitania. Il divide et impera prosegue vittorioso ai danni degli attuali italiani del sud. Oggi è quasi un’offesa tacciare di napolitano un abruzzese o un salentino, perché essi intendono napoletano e quindi si vedono assimilati agli abitanti della città di Partenope, con tutti gli strascichi delle calunnie e delle divisioni sparse dal 1861 in poi. Permane per loro quell’attributo nell’alta Italia o all’estero, terre di emigrazione postunitaria (tra fine Ottocento e inizio Novecento)e pertanto luoghi di conservazione maggiore di memoria storica. Ne è esempio l’aggettivazione “tanos” usata in Argentina verso tutti gli emigrati dall’odierno Mezzogiorno, abbreviazione di Napolitanos. La modificazione culturale da noi invece ha prodotto i suoi malefici effetti: i Napolitani non esistono più.

Il tempo è ormai maturo per ricucire quest’ulteriore lacerazione culturale. Tralasciando l’uso sporadico di “napoletano”  anche nel regno borbonico (che allora non mirava a creare confusione) da adesso in poi noi abbiamo il dovere di chiamarci Napolitani dal Tronto a Capo Spartivento, compresa la città di Napoli. Sembra un neologismo e ciò gli conferisce tutta la potenza che può sprigionare: chiedere a un lucano o un calabrese di appellarsi  “napoletano”   non può che avere quasi sempre effetti negativi; invitarlo a ripristinare il termine desueto di “napolitano” lo sconcerterà sino all’accettazione in nome del futuro comune che vogliamo edificare su fondamenta antiche eppure innovative.

La Sicilia è già pronta per affermare la sua individualità plurisecolare e si sta sempre più convincendo che la dimensione socio-economica toccata alla metà dell’Ottocento assieme al popolo al di qua del faro è una grande tematica da meditare e riproporre per intaccare l’oppressione nord-italica. La Napolitania è molto meno pronta perché ricerca  la sua identità per vie traverse mentre la sola strada con uscita vittoriosa è quella delle radici storiche che la farà risorgere se il suo popolo si sentirà napolitano.

La mega-regione Sicilia e la macro-regione Napolitania devono diventare gli obiettivi a breve termine dei popoli al di qua e al di là dello stretto. Sarà poi naturale l’avvicinamento tra Sicilia e Napolitania , in tempi e modi da discutere approfonditamente, che fa già intravedere all’orizzonte qualcosa che si ispira sempre più alle Due Sicilie.

Come risoluzione in data 27 giugno 2013 del legittimo Parlamento  , oltre un secolo e mezzo di colonizzazione in Italia ha fuso nel dolore talmente i due popoli, maltrattati sistematicamente in maniera uguale, da crearne ormai uno solo a cui potremmo assegnare una definizione insistente nella storia passata per le ragioni addotte ma di pregnante significato: duosiciliani.

Immagino già le reazioni di quel mondo frastagliato ma proprio perché è necessario allinearci per lottare che ci serve il popolo e la nazione dei duosiciliani.

La cultura deve necessariamente sfociare in politica in senso lato se si vogliono cambiare le cose. Pertanto se i neologismi come duosiciliano (o napolitano per l’oblio della memoria) non sono completamente ortodossi rispetto alla documentazione storica, devono diventare strumento di lotta politica per far partire la nostra rinascita. Le ragioni dell’azione qui devono prevalere su quelle del pensiero perché, dopo trent’anni di revisione storica, siamo determinati a fare sul serio per i nostri popoli martoriati che rischiano di scomparire per l’esaurimento di alimentazione dalle proprie radici.

Ogni cosa sarà graduale e irresistibile. Cominciamo a compattare i Napolitani e ad usare questo apparente neologismo. Facciamolo già scrivendo al PC che ci segna in rosso la parola per lui inesistente. Con il tasto destro del mouse clicchiamoci sopra, scegliendo “aggiungi”. Con accorgimenti, costanza, pazienza, zelo e determinazione forgeremo i Napolitani del XXI secolo, preludio meraviglioso delle Due Sicilie!

 

Vincenzo Gulì