NAPOLI NEMMENO PIU’ CAPITALE DELLA CANZONETTA
Non mi ero mai occupato di canzone napoletana pur riconoscendo la sua meritata fama nel mondo ed essendo cresciuto nel suo mito familiare e sociale, all’ombra del Vesuvio. L’immane battaglia, che conduco da una vita, per far ritrovare ai meridionali di oggi le loro nascoste radici dei fasti dell’Ottocento borbonico mi ha condotto stavolta su una tematica i cui risvolti storici non sono di poco conto. La grande Napoli del Regno delle Due Sicilie, tra le prime tre capitali del tempo, aveva nei confronti della musica leggera un rapporto normale ben diverso da quello di supremazia mondiale della musica classica. Dalle villanelle a Michelemmà, da Te voglio bene assaje a Santa Lucia nel regno del Sud Italia si componevano e si cantavano bellissime canzoni (nell’ultima parte della monarchia borbonica con un importante gara canora durante la festa di Piedigrotta) senza una produzione particolarmente abbondante o una rinomanza internazionalmente rilevante. Ben altri erano i settori in cui in raccoglievano allori mondiali a cominciare da quello fondamentale della produzione economica.
Il cataclisma politico del 1861 della cosiddetta unificazione italiana causò, come sappiamo, a livello popolare una reazione spontanea, disperata, pressoché unanime, lunga e cruentissima chiamata brigantaggio. Le sofferenze degli ex abitanti delle Due Sicilie scatenarono effetti nei più svariati campi, anche in quello della musica leggera.
Oltre alle famose canzoni dei briganti che infiammarono i nostri antenati impegnati nell’estrema lotta per la libertà, sintomatico è il caso della celebre canzone Palummella zompa e vola. Essa vide la luce nel 1873, cioè quando da poco la violenza dei conquistatori sabaudi aveva soffocato nel sangue l’ultima resistenza di quelli da allora in poi detti meridionali. Il testo esprimeva l’anelito di libertà popolare divulgato dal grande interprete di Pulcinella Antonio Petito. Il successo fu immediato e tutti cantavano il suo ritornello per darsi coraggio a causa delle catene della schiavitù che stavano serrando ai loro piedi i colonizzatori del nord. Le preoccupate autorità non solo vietarono spettacoli che la comprendessero ma addirittura proibirono di cantarla per strada; stamparono infine una nuova versione che non accennava più alla perduta indipendenza, facendola pervenire ai nostri giorni. Naturalmente la gente continuò a sussurrarla a bassa voce o intonando la musica a bocca chiusa. E’ talmente considerata pericolosa la sua diffusione popolare che un film di qualche decennio fa che infamava i Borbone mostrava Petito (interpretato da Eduardo De Filippo) che cantava la canzone contro la tirannia borbonica! Sarebbe bellissimo riuscire a ritrovare il testo originale per dimostrare un’altra botta di orgoglio dei Napoletani.
Quello che seguì fu assai più grave. Nell’ambito della cancellazione delle tradizioni di popoli colonizzati, i nuovi padroni escogitarono un premio di consolazione da dare a Napoli, degradata da primissima capitale europea a mera provincia di uno stato ostile. In tal modo da capitale di uno stato tra i primi 3 o 4 del mondo, da capitale della cultura, della scienza, dell’economia, dell’arte, del diritto, Napoli fu avviata verso la semiseria qualifica di capitale della canzonetta. Non appaiono dubbi in tal senso se si osserva la quantità di canzoni partorite dagli autori napoletani su argomenti ben lontani da quelli di Palummella anche se spesso profondamente intrisi di malinconia perché appartenenti al periodo più cupo della trimillenaria storia della città di Partenope.
Diamo solo un primo elenco di fine Ottocento:
- Funiculì funiculà (1880), di Luigi Denza e Giuseppe Turco;
- · ‘A frangesa (1894) di Mario Costa
- ‘O sole mio (1898), di Eduardo Di Capua e Giovanni Capurro;
- Marechiare (1885), di Francesco Paolo Tosti e Salvatore Di Giacomo;
- Era de maggio (1885), di Mario Costa e Salvatore Di Giacomo;
- Scetate (1887), di Mario Costa e Ferdinando Russo;
- Comme te voglio ama’(1887), di Vincenzo Valente;
- ‘E spingole frangese (1888), di Enrico De Leva e Salvatore Di Giacomo;
- Lariulà (1888), di Mario Costa e Salvatore Di Giacomo;
- Catarì (1892), di Mario Costa e Salvatore Di Giacomo;
- ‘A vucchella (1892), di Francesco Paolo Tosti e Gabriele D’Annunzio;
- Carcioffolà (1893), di Eduardo Di Capua e Salvatore Di Giacomo;
- Serenata napulitana (1897), di Mario Costa e Salvatore Di Giacomo;
- Maria Marì (1899), di Eduardo Di Capua e Vincenzo Russo;
Nei primi del Novecento ricordiamo‘O surdato ‘nnammurato (1915) di Aniello Califano e Enrico Cannio; ‘A tazza ‘e cafè (1918) di Giuseppe Capaldo e Vittorio Fassone; Santa Lucia Luntana (1919) di E. A. Mario che ricorda gli orrori dell’emigrazione biblica mai conosciuta prima dai meridionali.
La produzione del successivo mezzo secolo è copiosa, incalzante, popolarissima perché offerta e domanda s’incontrano in grande armonia con il beneplacito delle classi dominanti.
Sempre di più si alimenta la mitopoiesi di Napoli capitale canora, con film, letteratura e festival ad hoc e diffusione in tutto il mondo sino alla saturazione dei tempi nostri. La ragione risiedeva nell’incanalare la passione popolare verso strumenti innocui per il potere celebrando sentimenti preventivati soprattutto come le pene d’amore. Gradualmente lo spirito di Palummella evaporò come il ricordo del grande passato.
Adesso che quella cancellazione della memoria è perfetta, Napoli non ha più bisogno di modelli positivi, ancorché futili, e le sue doti canore, senza più concorsi o encomi interni ed esterni, sono affievolite se non guardano al passato o confuse nelle altre cose d’Italia. Oggi Napoli merita solo l’esecrazione internazionale. Rimangono e sono esaltate la criminalità, l’invivibilità, la spazzatura…
Vincenzo Gulì