Riproponiamo il rifacimento di un nostro scritto esattamente di 17 anni fa che tratta di un fatto storico poco conosciuto, ma molto interessante, nell’universo identitario duosiciliano. Esso avviene alla seconda invasione francese di seguito ordinatamente sviluppata per introdurre il massacro di Lauria del 7-8-9 agosto 1806.                                      

 

Lauria, in pieno periodo borbonico, era capoluogo del distretto  omonimo in provincia di Basilicata. Aveva un’attività economica bastante ai suoi abitanti sin dalla visita del fondatore della dinastia Carlo di Borbone foriera di quegli interventi mirati, destinati a creare benessere in ogni angolo del regno. In particolare a Lauria c’erano fabbriche alimentari, filande per la lana e la seta e, soprattutto,  manifatture di armi che divennero famose in tutta la nazione e terribilmente utili ai laurioti agli inizi del nuovo secolo.  

Nel 1799 la rivoluzione francese allungò la sua ombra ipocrita e letale anche su Lauria.  In città furono mandati Commissari Democratizzatori con soldati giacobini che fecero piantare l’Albero della Libertà. Fu il trionfo dei traditori della Repubblica Partenopoea tra cui il lauriota Nicola Carlomagno, giovane avvocato benestante che s’invaghì perdutamente dei fumi rivoluzionari  tramando per anni nella capitale e divenendo infine un Commissario di Polizia che firmò molti arresti di condannati legittimisti borbonici.

La restaurazione borbonica fece sparire le poche teste calde filogiacobine (grazie allo zelo di leali sudditi come Antonio Lombardi) e riportò calma e benessere nella cittadina lucana. Il beato Domenico Lentini convinse personalmente i pochi repubblicani a svellere l’Albero della Libertà ed a sostituirlo con una Croce che ancora oggi si ammira. Il Carlomagno fu invece arrestato dalla Giunta di Stato borbonica e, per i suoi chiari crimini contro il Re e i suoi connazionali, condannato a morte per impiccagione con esecuzione nella capitale il 13 luglio 1799. Salendo il patibolo avanti ai lazzari esultanti disse : << Popolo stupido, tu ti rallegri oggi della mia morte, ma presto verrà il giorno in cui piangerai con lacrime amare…>>. Era solo lo sfogo perverso di un folle troppo democratizzato che prevedeva il “rinsavimento” popolare con pentimento per gli “orrori” commessi nel ’99; mai avrebbe potuto immaginare che, grazie al trionfo delle sue idee, nel 1860 sarebbe venuto l’infausto giorno della completa “liberalizzazione” dei duosiciliani con gli effetti che tutt’ora ci opprimono. Le lacrime amare furono effettivamente piante ma per la perdita dell’indipendenza sette volte centenaria, il saccheggio di ogni bene, i massacri fatti dagli ultimi conquistatori sabaudi, l’esodo biblico che concluse la tragedia duosiciliana… Ben diversamente andò per qualche altro lauriota filofrancese come Paolo Melchiorre che sfuggì alla pena capitale nel ’99 ricevendo l’esilio; la magnanimità di Ferdinando I lo fece ritornare e, nel 1820, lo troveremo imperterrito nel parlamento rivoluzionario!

Ben presto, dopo la restaurazione, la fame francese di conquista si era riscatenata con l’avocazione di tutti i poteri nelle mani di Napoleone Bonaparte. L’autonominatosi imperatore applicava perfettamente il principio del divide et impera e riuscì alla fine del 1805 a lasciare il regno di Napoli staccato dagli alleati e quindi facile preda per la Francia. Applicando un altro dei suoi principi, quello del nepotismo, destinò il fratello Giuseppe sul trono di Ferdinando di Borbone. Un grande esercito imperiale valicò allora i confini sebezii puntando sulla capitale nonostante che il trattato di Parigi prevedesse la neutralità dello stato borbonico. 

Se Napoli venne conquistata troppo facilmente, non così le province.  In  tal modo si ripeté quanto avvenuto durante i tristi sei mesi della Repubblica Partenopea: grosse truppe a Napoli con apparente calma, attentati continui fuori della capitale ad ogni pattuglia straniera e ai collaborazionisti. Tuttavia la zona di dominio bonapartista giungeva non molti chilometri oltre i principati. Sui monti calabro-lucani i fieri abitanti aspettavano orgogliosi e vogliosi gli invasori, spalleggiati da vari reparti borbonici che di fatto controllavano la maggior parte del regno continentale.

Il comandante in capo  Massena (nativo di Nizza), ben conoscendo la forza dei regnicoli,  decise di agire repentinamente, spietatamente e definitivamente. Chiese rinforzi adeguati a Parigi per dare un colpo decisivo alla resistenza richiamata “brigantaggio”. Già per i “briganti” isolati che erano stati presi, rei di delitto di Stato,  la punizione era stata immediata e crudele, addirittura con impalamenti alla turca come a Lagonegro!

Un imponente esercito francese vinse i regi borbonici a Campotenese il 9 marzo 1806,  Il fatto d’arme di Campotenese equivalse ad un segnale di ritirata generale verso lo stretto. Ma se l’esercito regolare si dileguava, i calabresi, uniti ai soldati rimasti sbandati,  rendevano durissima o impossibile la conquista francese. Il gen. Regnier scriveva a Parigi che solo la terra calabrese che calpestava si potesse dire conquistata! 

Mentre il grosso esercito di Massena seminava lutti nella Calabria Citra, i lealisti borbonici lavoravano ai fianchi gli invasori. Le antiche fortezze di Gaeta (sotto il comando del principe di Hassia Philipstadt) e Civitella del Tronto (i cui difensori, con l’irlandese Matteo Wade in testa, scriveranno una delle pagine più belle della storia napoletana) resistevano ancora nella primavera del 1806, le isole del golfo di Napoli erano conquistate dall’amm. inglese Sideney Smith (collaboratore del grande Nelson caduto a Trafalgar con la rovina completa della flotta napoleonica). Queste esaltanti notizie persuasero il re a Palermo che era giunto il momento di operare anche sul continente: al gen. Stuart, capo supremo degli alleati inglesi è affidato anche un corpo di spedizione siciliano che passò risoluto lo stretto.  

Il 1° luglio 1806, nei pressi di Maida, l’esercito napoleonico subì la sua prima sconfitta avanti agli anglo-siciliani. Il fatto fece scalpore nel regno e all’estero e rischiava di innescare una reazione come quella di Ruffo nel ’99. Ma la politica britannica non desiderava la vittoria completa e le armi tacquero troppo presto. 

Nel frattempo a Lauria l’atteggiamento patriottico era sempre altissimo: il presidio cittadino fu sloggiato da cittadini con coccarda borbonica e una colonna di polacchi fu aggredita e disarmata.

Massena veniva continuamente spinto addirittura da Napoleone in persona a sedare subito la rivolta nel sud italico. I rinforzi necessari stavano però assediando l’eroica Gaeta e Massena comandò l’assalto finale che ebbe successo il 10 luglio quando una scheggia ferì l’impavido principe di Hassia Philipstadt, scoraggiando i difensori.In tal modo a fine luglio finalmente  re Giuseppe diede carta bianca a Massena che fu autorizzato ad usare i suoi rinforzati mezzi per stroncare la resistenza lucana e calabrese.

Nell’agosto del 1806 l’esercito invasore giunse nel distretto di Lagonegro ove i Francesi avevano sperimentato duramente l’ostilità degli abitanti. Naturalmente i “briganti” attaccarono le avanguardie di re Giuseppe sulla strada per Lauria, anche quelli usciti da Lagonegro posizione giudicata poco difendibile.

Poi tutti si trincerarono nella cittadina lucana, protetti dalle mura e dai vicoli stretti, e decisi a fermare i Francesi per dar tempo ai borbonici nella Calabrie di organizzarsi. Il divario quantitativo non fece optare per un attacco nelle gole che conducevano alla città lauriota. Dopo la perentoria intimazione della resa e varie scaramucce, l’8 agosto 1806 Massena investì Lauria con l’artiglieria e mandò i suoi famosi Dragoni all’assalto.

La resistenza fu eroica e si svolse dietro le barricate, stradina per stradina, e casa per casa. Combatterono assieme ai “briganti” tutti i Laurioti: dai giovani ai vecchi e alle donne; con qualsiasi arma e addirittura con le pietre. Ma la forza e la brutalità francese non conobbero limiti. Il vincitore di Austerlitz, Massena, perse allora tutta la sua gloria e si macchiò d’infamia dando ai suoi uomini il diritto di sacco. Anche quando la resistenza era ormai annientata, la furia degli invasori li faceva sfondare le porte per uccidere, stuprare, saccheggiare; anche quelli che non avevano direttamente partecipato, nascondendosi, furono inesorabilmente colpiti. Alla fine fu appiccato il fuoco e quella terribile notte praticamente tutte le case arsero con tutti i feriti e gli ammalati che non riuscirono  a fuggire in tempo. I maggiorenti si rifugiarono presso il Vescovo Ludovici, che non era riuscito a distoglierei i suoi presbiteri a  prendere le armi per aiutare i popolani. L’indomani Massena e i suoi soldati, come  avvoltoi, vagavano per le macerie in cerca ancora di sangue e di prede e raggiusero, sulla sommità della collina, il Vescovado. Il presule, assieme al futuro Beato Domenico Lentini, implorò la pietà del comandante che fece interrompere il massacro. Dei quasi sei mila abitanti, meno di 1/3 fu dichiarato passato per le armi ma, per la dinamica dei fatti, si può ben dire che molto più della metà dei laurioti furono martirizzati, perché trucidati per il Trono e per l’Altare. Il sole di quel 9 agosto vide distrutto il 90% delle case, le chiese principali (depredate degli arredi sacri venduti poi ai mercanti che seguivano i soldati), il grande archivio comunale; il monastero dei minori osservanti e la sua antichissima biblioteca; non fu risparmiato neanche l’ospedale di Santa Maria.

E mi misi direto a nu parapetto spara scuppetta, spara scuppetta; e mi misi direto a nu muro spara scuppetta, ca nun aggiu paura“. Sono alcuni dei versi di un’antica filastrocca popolana che rievocava le gesta dei laurioti ed il loro eroico tentativo di fermare l’esercito francese.

La vendetta dei francesi fu implacabile: a Lagonegro (ritenuta affidabile per la mancata resistenza)  furono spostati tutti i servizi, “il Giudicato, lo Spitale, il Vescovato”, gli Uffici Doganali, il Distretto, la Circoscrizione, i nuovi ispettorati, le tenenze ebbero come sede altri centri della Valle del Noce. Il paese fu sventrato per evitare  possibili rivolte e una larga strada separò per sempre la parte più bassa da quella più alta. In un  largo presso il palazzo vescovile furono ammassati gli eroici laurioti in una fossa comune, tanto colma da divenire sporgente dal suolo,  che ancora oggi prende il nome di “onda dei morti” per le cataste di corpi che si formarono.

Alla restaurazione i Borbone non  poterono risarcire  Lauria se non con un attestato di “fedelissima” e la capitale dei distretto rimase a Lagonegro (similmente a quanto avvenne altrove come tra  Montefusco ed Avellino) . Una vera onta per l’orgoglio dei popolani…

Da allora la “taccia” di “borbonica” segue Lauria (naturalmente in primo piano anche nel “brigantaggio” del 1860) e convinse persino gli anglo-americani nel 1943 ad effettuare un terribile bombardamento ispirato probabilmente più da essa che da non individuabili obiettivi militari, come perpetrato in altre zone similari come Isernia.

Quel giorno di agosto dell’A.D.  1806 deve essere perennemente ricordato perché dimostra la vera natura dei neo-giacobini che non disdegnano di incendiare e saccheggiare anche uffici pubblici (come ospedali e biblioteche) e, naturalmente, luoghi sacri (come chiese e monasteri). Da sempre i figli della Rivoluzione sanno che, contemporaneamente all’eliminazione dei resilienti, debbono operare la guerra alle culture diverse. La loro vera vittoria è legata al trionfo della rivoluzione in campo culturale. Come dimostrato dagli avvenimenti storici sin ad oggi, la globalizzazione di quella cultura nata sulle rive della Senna e proveniente da quelle del Tamigi può diffondersi sempre più quantitativamente, come ha fatto, nei secoli. Basti pensare agli onori che ancora si tributano a Lauria a Nicola Carlomagno (traditore del 1799) e a Francesco Maria Gallo (traditore del 1860). Ma, c’è una cultura ben più antica e radicata, svincolata dalle debolezze umane, che ha vinto sorprendentemente varie battaglie tra Settecento ed Ottocento e che alla fine vincerà la guerra. Essa è addensata attorno a quello che è stato riconosciuto immediatamente come il più grosso nemico da abbattere, come ampiamente  i padri della Rivoluzione, da Voltaire a Mazzini, hanno reiteratamente dichiarato. Essa ha portato alle stragi più mirate dei rivoluzionari (dalla Vandea al Messico, dalla Spagna ai paesi arabi) ed ha sorretto in maniera imprevedibile i cuori dei tanti martiri che hanno tentato di fermarla. Essa è connessa alla vera Chiesa Cattolica e si sviluppa in maniera antitetica rispetto a quella ufficialmente condannata della Rivoluzione (dai giacobini ai carbonari, dai liberali ai comunisti, dai militaristi ai capitalisti). Essa mostra la sua principale remora nel fatto che tanti controrivoluzionari, mentre odiano la Rivoluzione, non riconoscono questo assunto rimandando, per loro responsabilità, la vittoria finale…

 dalla capitale 8 agosto 2021

Vincenzo Gulì