Questa nazione, nata dagli imbrogli e dai crimini risorgimentali, diventò repubblica nel 1946 con un governo centrale che gestiva a suo modo direttamente il paese. Ciò era la continuazione della precedente monarchia che, tra l’altro, aveva lasciato in eredità la ferrea legge della colonizzazione del cosiddetto Mezzogiorno. In quel secondo dopoguerra una ventata di democrazia scuoteva il potere dei vincitori dando l’illusione che un mondo migliore stesse per strutturarsi.  Poi circa 50 anni fa si cominciò a pensare al decentramento alle regioni quando già si parlava di accordi europei su risorse fondamentali, come il carbone e l’acciaio. Queste due direttive si irrobustirono sempre di più mentre la popolazione era ancora sferzata da quel vento e credeva di poter controllare la deriva della sua vita.

Sul fronte della deregulation centrale, per concedere alle istituzioni locali sempre più poteri, si fecero passi sempre più consistenti in maniera che l’elettorato non aveva più come punto di riferimento il governo nazionale ma la serie di enti territoriali in un coacervo di competenze e responsabilità politiche di ardua decifrazione. Ad esempio, se la fiscalità era eccessiva non si poteva contestare l’esecutivo centrale perché solo in accettabile percentuale ne era l’autore. Ancora, se si scovava una zona inquinata occorreva rivolgersi a uno staff di enti preposti, eterogenei e sovente in competizione, per ottenere risposte tardive e sibilline. Si era riusciti così a scaricare le responsabilità politiche sino a confondere gli storici antitetici schieramenti. Era un rimpallo di attribuzioni e colpe tra poteri centrali e periferici che rendeva assai complicato la vigilanza politico-elettorale. Ma quest’ultima ancora esisteva e poteva causare problemi a quelli che vogliono gestirei il mondo con la finanza e l’economia.

Per questi motivi parallelamente si era sviluppato anche l’altro orientamento, quello delle istituzioni continentali. Prima solo settorialmente economico e poi anche giuridico ed infine di fatto esecutivo verso i vari stati aderenti. In tal modo, poteri e responsabilità si dividevano e si accorpavano secondo le convenienze ponendo la vigilanza democratica letteralmente nel caos. Si verificava normalmente che un salasso finanziario che un governo nazionale non era stato capace di realizzare, prima era eseguito tramite comuni e regioni; in seguito per mezzo degli organismi comunitari. Secondo una rigida gerarchia, che i mass media definivano dogmaticamente tabù, nessuno aveva il diritto di opporsi a quelli sopra di lui. Ciò valeva per ogni campo, compreso quello della democrazia parlamentare. In queste ore ne stiamo vedendo un’applicazione fortissima per il tentativo di formare il nuovo governo bocciato dal presidente della repubblica su suggerimenti della UE.

Qui non si vuole prendere posizioni perché questi due trend (decentramento per fiaccare il potere centrale e europeizzazione per liberarsi di attribuzioni nazionali pericolose) sono in corso da oltre mezzo secolo e ben pochi hanno intuito dove le varie tappe andavano a parare. Adesso che si è stretti dalle difficoltà più che evidenti, si tenta di capire e di reagire. Ma questa politica del potere nazionale e transnazionale è quella dell’imbuto. All’inizio è larga e non desta soverchie attenzioni nei più, poi man mano si restringe ma rimane per lungo corso pressoché inavvertita finché non comincia seriamente a diminuire lo spazio con il muro dei problemi che si avvicina sempre più minaccioso.

Se è riservato a una élite italiana capire in tempo il piano diabolico della politica dell’imbuto, per noi colonizzati del Mezzogiorno è assolutamente insensato provare a cambiare le cose perché esse, sotto regimi tanto differenti, sono irrevocabilmente contro di noi da 157 anni. Un miglioramento nazionale, assai poco prevedibile in questo periodo, non arrecherebbe alcun beneficio a questo sud illegalmente incorporato dai tosco-padani.

Non è per noi tempo di stagioni politico-elettorali. E’ tempo di battere altre strade finché ce le lasceranno percorribili…

 

Vincenzo Gulì

 

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