Il sorano Luigi Alonzi, detto Chiavone, fu uno dei più famosi capibriganti. Tra il 1860 e il 1862 costituì una spina nel fianco dei garibaldini prima e dei piemontesi dopo.

Egli combatté nella zona limitrofa al confine pontificio della Ciociaria e fu uno dei più diretti interlocutori della Corte borbonica in esilio a Roma.

All’auge della notorietà, quando in tutta Europa si parlava delle sue imprese leggendarie, l’audace giornalista francese Pierre Paget compì mille peripezie per realizzare un vero e proprio scoop per intervistarlo. Riuscì ad incontrarlo a Scifelli, suo quartier generale, dove lo ritrasse anche in divisa di generalissimo di Francesco II. Nel  giugno 1862 sul giornale francese“L’Illustration, Journal Universel” fu finalmente pubblicato il suo prezioso reportage.

La lunga narrazione appare una vera piccola storia di Luigi Alonzi. Naturalmente l’inviato de L’Illustration compone il suo pezzo a posteriori e lo dipinge di molta mentalità perbenista  che vuole far apparire il Chiavone più un  criminale  che un patriota quale egli era. Ciò nonostante, alcune affermazioni meritano di essere approfondite proprio per questa ragione. Chi non intende parlare bene di qualcuno, se lo fa, è ancora più credibile!

Il giornalista fu molto aiutato dall’ intendente di Sora  Homodei, , venuto da Milano. E’ sintomatico sia il fatto che i duosiciliani in catene si troveranno dappertutto funzionari pubblici settentrionali con tutti gli strascichi consequenziali: difficoltà di comprensione linguistica, identificazione nelle persone del Nord dei guai in cui erano sempre più stretti, sfiducia nella pubblica amministrazione perché distante in ogni senso dagli amministrati.

Innanzi tutto si dichiara apertamente la grande rinomanza internazione del sorano; poi si parla dei rifornimenti alla sua banda fatti da una tale intermediaria donna Vincenza. Costei  faceva acquisti al mercato di Veroli con i soldi di Chiavone senza alcuna violenza o sopraffazione banditesca.

Gli uomini del capobrigante, regolarmente pagati con quattro carlini il giorno,  portavano delle divise un po’ raffazzonate che conferivano loro però una luce militare facendoli apparire sempre più quelli che erano in sostanza: soldati del legittimo re Francesco.

Molto stupore prende il Paget  nel descrivere la stanza ove avvenne l’intervista. Con

lo sfondo di tanti brutti ceffi, come possono apparire i chiavonisti, tante immagini alle pareti di Santi. Fermo restando che nella lunga storia dell’umanità sovente efferate atrocità sono state purtroppo eseguite addirittura nel nome di Dio, occorre invece inserire questo elemento di arredamento nel contesto del comportamento dei briganti in questione. Come il Re per grazia di Dio doveva dar conto, oltre che alla sua coscienza, ai superiori religiosi, principalmente il Pontefice; così il brigante timorato di Dio sapeva di agire per una giusta causa che non poteva contaminare con mezzi iniqui. Questa è la linea di condotta che si riscontra nelle bande legittimiste e che quasi sempre è attuata o fatta attuare. La visione stupefacente dell’intervistatore è dunque soltanto una novità eccezionale per chi non ha ben chiari questi fondamentali concetti.

Inoltre, per un francese, nato nel periodo dei grandi rivolgimenti sociali post-rivoluzionari, anche lo squisito e delicato pranzo servito nonché l’igiene e l’etichetta della tavola sono motivo di lieta sorpresa. Ormai la propaganda, pressoché esclusivamente di matrice neo-giacobina, faceva già forgiare dalla più tenera età individui con slogan fatti di luoghi comuni sull’arretratezza dello stato borbonico e della sua popolazione abbrutita dal governo civile e religioso che l’opprimeva. I riscontri oggettivi che contraddicono tale mentalità sono considerati eventi straordinari e non un sintomo del sistema di menzogne eretto da chi si stava impossessando del mondo. Uguale pulizia , come in una casa signorile della Ville Lumière, l’inviato della stampa trova nel letto che gli è offerto per la tradizionale ospitalità dei duosiciliani, eredità anch’essa dei nostri progenitori greci.

C’è  infine una sommaria narrazione delle gesta di Alonzi. Nel descrivere il primo assalto a Sora dei briganti è riportata la notizia che il capo-massa avrebbe vietato di distruggere l’effige di Garibaldi assieme a quella di Vittorio Emanuele in bella mostra nel municipio. Da qui è scaturita una leggenda sulla presunta simpatia per il Nizzardo, emulato anche nell’atteggiamento pittoresco per demagogia. A parte il fatto che è l’unica notizia di salvataggio (e siamo a fine 1860) del ritratto di Garibaldi dai rituali iconoclastici delle figure risorgimentali che fecero i briganti in tutta la loro lunga e sfortunata guerra, c’è da pensare che un comandante a metà strada tra il bandito ed il soldato che le cronache dipingono come un leader carismatico capace di infiammare le popolazioni e di dichiararsi talvolta non ossequioso ai Savoia, non poteva non colpire Chiavone. Anch’egli riconosceva che un tale personaggio gli era ben confacente. La ricerca storica sta sempre più dimostrando che il Garibaldi citato pomposamente nei libri è un solo un mito, frutto di leggende propagandistiche e non di documentazione rigorosa, bello da ascoltarsi come una favola ma, come essa, assolutamente irreale e velato di serietà in cattiva fede per bandire la vera storia dei popoli duosiciliani.  Propendiamo per un’iniziale e tiepida attenzione più curiosa che benevola di Chiavone per quello che tutti sapevano essere il capo dell’invasione del Regno. Poi, man mano che le vicende si chiarivano (come i Piemontesi che soppiantavano i garibaldini, loro ipocrita avanguardia), non riteniamo plausibile  alcun livello di simpatia.

Conclusione: è sufficiente un pizzico di onestà intellettuale per accostarsi al fenomeno del brigantaggio scevri da prevenzioni e quindi capaci di rivalutarlo come esso merita.

 

Vincenzo Gulì