Una volta c’erano le ragioni di stato. I governi prerivoluzionari subordinavano ad esse molte scelte dolorose dagli accordi internazionali ai matrimoni reali, dagli interventi bellici ai provvedimenti interni. Con l’era rivoluzionaria (cioè dal 1789 in poi) le ragioni di stato sono state soppiantate dalle quelle di bilancio. Ormai sempre più nitidamente si comprende come la rivoluzione non sia altro che una destabilizzazione violenta, finanziata da potentati economici, al fine dichiarato di riformare le istituzioni per il benessere popolare ma al fine recondito (puntualmente verificato) di cambiare tutto ciò atto ad ostacolare le mire speculative degli organizzatori. Ciò spiega l’abbattimento delle monarchie refrattarie a questo disegno e la salvaguardia (ancora nel terzo millennio) di quelle cosiddette democratizzate, garanti del coronamento dei sogni di quelli che più chiaramente si possono definire i capitalisti (oggi trionfanti). Naturalmente il popolo è proprio la vittima predestinata degli sconvolgimenti rivoluzionari perché del tutto inerme di fronte allo strapotere economico e politico, non più ridimensionabile da parte del massimo potere dei capi di stato di un tempo, ossia dei sovrani prerivoluzionari. Chi conosce la storia dei Borbone può constatare con precisione questo assunto.

Con la rivoluzione si passò da un bilancio dello stato volto al pareggio con notevoli spese pubbliche pagate dal re, a un bilancio con il passivo demagogicamente illimitato “per il benessere popolare”. Ovviamente il re riformato affondava le sue mani nell’erario invece di contribuire ai bisogni pubblici e il tutto andava coperto con un’esponenziale crescita tributaria, basata soprattutto sulle fonti di certa escussione come le famigerate (per il popolo) imposte sui consumi (tanto più se primari).

Iniziò così l’era dei bilanci in rosso, comuni a tutti gli stati moderni, che costringono ad alzare proporzionalmente la pressione fiscale con tutte le conseguenze che si possono agevolmente notare. I mass media (al soldo dei potentati economici) martellano la pubblica opinione sulla necessità di sacrifici generalizzati per salvare l’apparato statale, con l’appoggio, non certo disinteressato, dei paesi vicini (come per l’unione europea).

In questa logica (apparentemente lineare ma sostanzialmente dogmatica) tutto può esser sacrificato per salvaguardare le famose ragioni di bilancio. Esse vogliono alleviare la spesa pubblica senza inasprire le entrate tributarie; non possono che prevedere la riduzione drastica dei servizi pubblici, anche fondamentali.

Uno stato veramente unificato per raggiungere tale obiettivo dovrebbe inimicarsi la totalità dei cittadini ripartendo in parti eque il prelievo delle risorse. Se, invece, escogita il federalismo (come l’Italia) con un colpo di bacchetta magica si ritroverà da una parte geografica servizi pubblici inalterati (se non accresciuti) con bastante copertura autoctona di spesa; dall’altra servizi pubblici ridotti (se non sospesi) con risicata copertura di entrate locali.  Al tirare delle somme (che i novelli sacerdoti della dea Economia sanno fare assai bene) si godrà del successo se le uscite totali (quelle delle due zone) saranno inferiori alle uscite precedenti alla divisione federalistica (per il calo delle spese nella zona svantaggiata), mentre le entrate totali saranno sostanzialmente eguali (con l’avvertenza che quelle della zona più ricca potranno scendere proprio come saliranno quelle della zona più povera, strangolata dalla pressione fiscale).

Lo stato federalistico otterrà, in tal modo, l’assenso entusiastico dei cittadini della parte favorita. Quelli dell’altra parte rimarranno sì scontenti ma soprattutto confusi (per la continua catechesi mediatica sulla necessità del cambiamento) e capaci di reagire secondo il loro grado di comprensione del fenomeno in atto.

Questo è il vero motivo che spinge tutti i partiti, i mass media, gli economisti di regime a magnificare il federalismo che si sta realizzando.

Chi vuole difendersi, conseguentemente, non dovrà riporre speranze in quei gruppi politici, in quei mezzi di informazione o in quegli specialisti attivati dal potere. Dovrà percorrere nuove strade, magari quelle invise alle sirene federalistiche, senza temere di perdersi. Tra un percorso che conduce certamente alla rovina ed uno poco conosciuto, non vi deve essere titubanza: optare per il secondo. Il suo esito non potrà essere la rovina perchè essa è la meta dell’altra via. Potrebbe invece essere la nostra vera libertà…

 

Vincenzo Gulì