Quando il giovanissimo Carlo di Borbone sale sul trono sebezio nel 1734, il regno che Ruggero il Normanno, aveva fondato a Palermo agli inizi del XII secolo raggiunge in poche generazioni il massimo del suo splendore collocandosi ai primi posti del mondo in tutti i campi, da quelli tradizionali come l’arte a quelli moderni come l’economia. Sin dal suo insediamento Carlo dà prova di intuizioni ed innovazioni idonee a far conseguire al suo regno la massima collocazione tra le nazioni più progredite del tempo. Sono più o meno noti i primati raggiunti a livello internazionale ma quello della costituzione della I cattedra di Economia al mondo con Antonio Genovesi del 1754  rappresenta un’enunciazione di programma a lungo termine che pone gradualmente il regno borbonico ai primi posti in quel settore in cui si sarebbero maggiormente misurate le moderne potenze da lì in avvenire.

Eppure i presupposti della politica economica borbonica sono sensibilmente diversi da quelli che alimentano il rampante capitalismo inglese che mira alla conquista del pianeta. Dalla Riforma in poi gli stati del mar del nord si erano sempre più differenziati da quelli mediterranei raggiungendo il massimo divario dopo gli sconvolgimenti della Rivoluzione Francese che era riuscita persino a rompere l’omogeneità di quelli cattolici. Erano ben distinte ormai due diversi tipi di monarchie, esempi probanti di organizzazioni statali antitetiche. Nell’ancien régime il re ascoltava le rappresentanze sociali (come i tre stati della Francia pre-rivoluzionaria) ma conservava tutto il suo potere definito assoluto in caso di contrasto tra le norme che venivano dal basso e le immutabili leggi che informavano i regni cattolici. L’osservanza del volere divino, tramite il magistero della Chiesa di Roma, era la vera essenza dell’attributo del sovrano“per grazia di Dio”. Dopo la Rivoluzione i monarchi “democratizzati” regnavano “per grazia di Dio e per volontà della nazione” ponendo in risalto la rottura di quel legame millenario con i precetti cattolici in maniera che un parlamento poteva anche contrastarli (come per il divorzio) essendo ormai i due attributi  paritetici o ambivalenti (nel senso che il “popolo” parlava  anche in nome di “Dio” svincolandosi dal Papa).  Ciò si può schematizzare nel fatto che prima della Rivoluzione i valori che orientavano gli stati cattolici erano gerarchicamente Etica-Politica-Economia. Le scelte economiche andavano fatte secondo il tipo di politica seguito dal governo che, a sua volta, era rispettoso dei principi morali del Cattolicesimo. Dopo la Rivoluzione quei valori erano ribaltati: Economia-Politica-Etica. Le scelte economiche venivano presentate ai governi per essere sostenute, indipendentemente dalla loro ammissibilità secondo i canoni morali. Ad esempio, nella crisi granaria di metà Ottocento, la regina Vittoria permise cinicamente di fare incetta del grano i cui prezzi erano alle stelle con provvedimenti legislativi appositi  che favorivano lucrosissime esportazioni senza alcuna remora di coscienza per le centinaia di migliaia di sudditi irlandesi morti per fame. Nel regno di Napoli, invece, Ferdinando II acquistò grano dalla Russia per metterlo sul mercato interno sotto costo per aiutare i più bisognosi: la carità (etica cattolica) aveva mosso la politica (benessere dei sudditi) che apriva alle importazioni tutt’altro che profittevoli.

Con i Borbone di Napoli è in tal modo realizzata un’attività economica più attenta al fattore umano e meno al fattore capitale, proprio l’inverso  di quanto avviene Oltre Manica. E’ una sorta di socialismo ante litteram che porta l’apparato produttivo delle Due Sicilie a risultati al di là delle più rosee aspettative, grazie all’armonia tra Stato, imprenditori e maestranze. D’altronde lo stesso socialismo non è che una riproposizione e deformazione dei valori sociali del Vangelo, proprio come la famosa liberté dei giacobini.

Con Ferdinando II quel regno al centro del Mediterraneo, fondato oltre sette secoli prima da Ruggero il Normanno,  non solo riesce a soddisfare pienamente il suo fabbisogno interno dando agli abitanti un livello di benessere raro per l’epoca, ma fa sempre più intensamente concorrenza a chiunque sui mercati internazionali europei e transoceanici. Le navi con le bandiere gigliate  delle Due Sicilie esportano manufatti nazionali nelle Americhe, in Asia e in Australia in cui si imbattono per concorrenza solo nella Union Jack.

I prezzi e le qualità altamente competitivi di Napoli si spiegano con la composizione armonica accennata prima tra i fattori produttivi capace di avere un prodotto finito con un costo totale inferiore o uguale a quello degli altri paesi. Altrove se si pagavano di meno alcuni fattori (come il lavoro) si sopportavano costi più elevati su altri (come le materie per rendimenti inferiori o come l’alta pressione fiscale).

Oltre all’intervento oculato dello Stato (che gli altri escogiteranno un secolo dopo con le teorie di Keynes), l’economia borbonica si caratterizzava per l’equilibrio esistente tra i tre settori tradizionali (agricoltura, industria e commercio) che consentiva i massimi risultati positivi. Le strutture pubbliche all’avanguardia, che non gravavano  sulle tasche dei regnicoli, e la stabilità dello stato offrivano alle aziende l’humus ottimale per il loro migliore sviluppo. La piena occupazione (anzi con immigrazione di braccia e cervelli) era la conseguenza di questo sistema economico che quindi ignorava completamente l’emigrazione, eccezione unica tra gli altri stati della penisola e dell’Europa.

Ecco perché nel 1860 il Regno delle Due Sicilie si trovava al massimo della sua crescita socio-economica che si può documentare con due dati incontrovertibili. Innanzi tutto la famosa tabella di Francesco Saverio Nitti (riportata in “Nord e Sud” del 1900) concernente la quantità di milioni di lire-oro (sia degli enti pubblici sia dei privati cittadini) nelle banche degli stati preunitari:

  • Parma e Piacenza                  1,7                    0,3%
  • Lombardia                             8,1                   1,2%
  • Venezia                                  12,8                  1,9%
  • Regno di Sardegna                27,1                  4,0%
  • Toscana                                  85,3                 12,9%
  • Stato pontificio                      90,7                 14,0%
  • Regno delle Due Sicilie         443,2               65,7%

 

Ad essa va affiancato l’elenco degli occupati nelle industrie: Nord-Ovest, 30,05%; Nord-Est, 14,78%; centro, 14,12%; Due Sicilie, 41,04%.

Ma l’indice che  avvalora e completa quanto sopra scaturisce dalla Borsa di Parigi (la più importante del mondo nel XIX secolo) secondo un recente studio di Maria Carmela Schisani (docente università di Napoli) : il titolo del debito pubblico borbonico era ai suoi massimi storici: 120,08 % nel 1857. Cioè ben oltre la pari per una stima fortissima della finanza internazionale dello stato duosiciliano, dall’organizzazione politica all’apparato produttivo, dalle infrastrutture al potere d’acquisto della popolazione.

Questi dati statistici sono stati fino a qualche decennio fa erano praticamente segregati e a sola a diffusione interna, cioè riservati agli studiosi di regime in maniera che si potesse proseguire con le menzogne post-risorgimentali  imputanti la crescente questione meridionale a difetti atavici delle popolazioni autoctone.

 

Si può con obiettività affermare che le Due Sicilie erano a buon diritto tra quelli che potremmo definire i G 3 del XIX secolo, assieme a Francia e Inghilterra. La imminente apertura del canale di Suez avrebbe dato ancora più vantaggi a Napoli che già godeva di quelli importantissimi del quasi monopolio mondiale dello zolfo siciliano, fondamentale allora  come oggi il petrolio o l’uranio. I futuri padroni del mondo assisi tra le nebbie di Edimburgo e di Londra si trovavano a un bivio: accettare l’ardua sfida del Regno delle Due Sicilie o distruggerlo. Nel primo caso non soltanto avrebbero dovuto competere con prodotti con prezzi e qualità tali da ridurre drasticamente i loro profitti, ma si sarebbero trovati di fronte a una questione sociale montante nei paesi  centro-europei. Sono i tempi del manifesto di Marx ed Engels che rispondeva a grossi problemi nel mondo del lavoro naturalmente assenti nel regno borbonico. Quale impatto avrebbe avuto sul proletariato internazionale la divulgazione che era possibile un’altra via allo sviluppo dell’economia moderna?

E’ da questo insieme di problematiche che va individuata la ragione della guerra internazionale contro Napoli chiamata unificazione italiana che risolve nel sangue, nella menzogna  e nella colonizzazione tutte le questioni che angosciavano il capitalismo d’oltre Manica. La conquista sabauda, detta perfidamente unità d’Italia, non avvenne per unificare la penisola (quante altre penisole non sono mai state unificate dalla Scandinavia all’Indocina!), né per consentire a Vittorio Emanuele di evitare il default del Piemonte e nemmeno per risolvere le contingenze ottocentesche (come Suez).   Essa avvenne, con preparazione scientifica  e mezzi illimitati, per spianare il futuro al tipo di sviluppo economico che gli Inglesi avevano ideato e che stiamo sperimentando sulla nostra pelle da 150 anni. Gli scempi della civiltà così imposta non possono essere combattuti senza una chiara visione delle cause storiche. L’autorevolezza delle informazioni è poi l’arma più poderosa per confondere  le menti ancora ignare della verità: le agenzie di analisi macroeconomica e i docenti di primo livello ad esse collegati sputano sentenze sulla situazione contemporanea che nessuno riesce a smentire per la quantità enorme di informazioni che le tutelano. Ormai dalle previsioni dell’Università di Harward (per l’economia occidentale) degli anni trenta a quella della Fondazione Agnelli (per il futuro del Mezzogiorno d’Italia) degli anni settanta del Novecento viene molto più convincentemente un piano e non un’ipotesi; ciò nel senso che gli avvenimenti futuri sono esaminati da chi detiene il potere non tanto come meccaniche conseguenze del presente, quanto come progetti minuziosi da realizzare con strumenti leciti ed illeciti, ufficiali ed occulti. Quella della fondazione torinese presagiva quasi mezzo secolo fa per il Sud Italia il ritorno a condizioni socio-economioche simili a quelle dell’ultimo dopo guerra con il pretesto che nell’ultimo quarto del XX secolo il suo tenore di vita era superiore alle sue possibilità. Ritorna surrettiziamente   l’accenno alla famosa questione meridionale per cui il Meridione mangia quando le briciole sono abbondanti e deve stringere la cinghia in periodi di recessione. L’odierna economia della crisi in atto deve spolpare definitivamente le popolazioni al disotto del Garigliano per permettere agli altri di rimanere a galla nella tempesta finanziaria inventata dai padroni del mondo. Nessun discorso unitario è stato mai fatto nello stato italiano: un nord operoso e al passo con i grandi d’Europa, un sud geneticamente sfaccendato che deve ringraziare per non essere sprofondato verso l’Africa…

La conclusione deve essere che unicamente attraverso la conoscenza della nostra vera storia è possibile spezzare questo formidabile circolo vizioso che attanaglia noi meridionali. Tutti i discorsi, le aspettative, le preoccupazioni, i danni, i conti risorgimentali devono essere riconsiderati sia per costruire un’auspicabile e effettiva unità d’Italia, sia per concordare diverse soluzioni che devono trovarci culturalmente e politicamente preparati.

Vincenzo Gulì